Altro che turismo, la sfida è trasformare lo statuto culturale di questi luoghi. Tra riallestimenti, tecnologie e nuova narrativa, gli Uffizi si rinnovano per offrire una comprensione più profonda e accessibile dell’arte e della sua storia. Parla il direttore Simone Verde
Il Settecento. Ah, il Settecento di Firenze non è così noto come il suo Rinascimento. Epoca di rimpicciolimento del Granducato, di decadenza, con quel Cosimo III poi, codino e bigotto, che si faceva ritrarre nelle vesti di Canonico di San Pietro e imponeva biancheria posticcia alle statue di nudi. Non è così noto, il Settecento, neanche dentro agli Uffizi. Un po’ perché il brand va dal Trecento ai capolavori del Rinascimento, un po’ perché le sale dedicate alla pur notevole collezione settecentesca sono chiuse da un decennio, per l’infinito lavoro di ampliamento dei “Nuovi Uffizi”, opera degna di Sisifo ma che finalmente si sta indirizzando a conclusione. Il Settecento degli Uffizi, oggi, è però un’occasione da riscoprire. Attraverso la bella mostra che inaugura nelle stanze al piano terra della “ala di levante” (fino al 28 novembre). Titolo programmatico: “Firenze e l’Europa. Arti del Settecento agli Uffizi”. Arti al plurale, non solo di pittura – anche se in mostra ci sono nomi pregiati: Goya, Canaletto, Tiepolo – ma anche scultura, collezionismo, stampe: una scelta con una chiara logica museologica e narrativa. Del resto, proprio nelle sale della mostra, in un prossimo futuro verrà ospitata una sezione di “storia delle collezioni”, perché un museo è anche la sua storia: operazione voluta dal direttore degli Uffizi, Simone Verde. O meglio direttore del Complesso museale che comprende, oltre alle Gallerie degli Uffizi, le collezioni di Palazzo Pitti, il Giardino di Boboli e il Corridoio Vasariano, di cui Verde nei mesi scorsi ha potuto celebrare l’apertura al pubblico per la prima volta. Questa sul Settecento è la prima mostra firmata dal direttore giunto a Firenze nel gennaio 2024, non certo la prima novità importante.
Reduce dal gran lavoro di restauro e riallestimento del Complesso della Pilotta a Parma, alle spalle l’esperienza di responsabile della ricerca al Louvre di Abu Dhabi e in vari progetti di cooperazione culturale internazionale, a Firenze Simone Verde ha portato la sua visione globale del ruolo dei grandi musei, in un’ottica di “ripensamento museologico e narrativo che stiamo attuando passo dopo passo”, spiega iniziando una conversazione con il Foglio nel suo Ufficio affacciato sull’Arno. “Un progetto preciso. Siamo partiti con il riallestimento di alcune sezioni”. Oltre agli Appartamenti reali di Palazzo Pitti, al Vasariano e alla risistemazione di Boboli, nelle Gallerie è stato ripristinato innanzitutto lo storico Gabinetto dei Marmi; sono state riallestite le sale dei fiamminghi, da Dürer a Cranach e inoltre la Sala della Niobe, gioiello di architettura neoclassica. “Sono interventi mirati, in alcuni casi costituiscono le prove generali del posizionamento delle opere nel museo con una nuova narrativa per dare attuazione ai ‘Nuovi Uffizi’ che da troppi anni sono un cantiere infinito”. Un cantiere contro il cui simbolo negativo, la gru che da ben 19 anni campeggia nel cortile degli Uffizi dilaniando la visione della città, Verde sì è subito scagliato. Tempo poche settimane, e l’ingombrante e soprattutto ormai inutile manufatto sarà smontato e sostituito – anche grazie a mecenati privati – da un più logico montacarichi. Gru a parte, che cosa vuol dire cambiare la narrativa di un luogo come questo? “Narrativa” è parola che va di moda, ma spesso banalizzata. Lei, arrivando qui, aveva parlato di “un grande ritorno al futuro degli Uffizi: le radici ben salde nella storia del primo grande museo occidentale, ma con la testa dinamicamente proiettata in avanti nel ruolo di laboratorio della museologia globale”. Ci spiega il progetto? “Rifare la narrativa significa ripensare il percorso storico e artistico attraverso le opere, tenendo però conto delle più recenti acquisizioni della ricerca scientifica. Un museo è sempre un luogo dinamico, un laboratorio, non un deposito. Quindi è ovvio che anche il museo deve aggiornarsi”.
La narrativa che hanno nell’orecchio i visitatori – gli studenti in gita scolastica o i famosi turisti globalizzati – è però diversa: vengono qui perché è il museo che racconta l’arte italiana. E spesso ci si perdono: più che sindrome di Stendhal, una sindrome da visitatore impreparato. Come fa un grande museo – gli Uffizi, con 5 milioni e trecento mila visitatori, sono il secondo polo italiano per flusso – a far percepire questo aggiornamento al visitatore? E’ un processo che va guidato con attenzione, spiega Verde: “Anche la comprensione che abbiamo della storia dell’arte cambia continuamente. Le faccio un esempio dalla mia esperienza personale, dal grande progetto del Louvre di Abu Dhabi in cui si è proposto al pubblico un percorso di storia globale dell’arte. Non si tratta certo dell’unico campo di innovazione scientifica su cui lavorare, ma per limitarci a un esempio indicativo, anche agli Uffizi dobbiamo tenerne conto tant’è che il riallestimento delle sale dell’arte fiamminga è stato fatto in raccordo con la pittura fiorentina del Quattrocento e gli scambi culturali tra queste due aree d’Europa, obiettivo dimenticato ma perseguito nel Dopoguerra da un altro direttore del museo, Roberto Salvini. Da scambi culturali analoghi è nata la stessa forma museo che, commistione dello studiolo, della Wunderkammer tedesca e della galleria francese ha visto la luce proprio agli Uffizi quale invenzione tutta italiana e consegnata al mondo”. A proposito di Settecento, fu proprio l’ultima Medici, Anna Maria Luisa, a vincolare nel 1737 in perpetuo le collezioni allo Stato fiorentino. “Oggi grazie al rinnovamento museografico il pubblico può essere guidato a comprendere in modo nuovo, maggiormente articolato, lo sviluppo delle arti”.
Si parla molto, fortunatamente, della funzione dei musei. Lei guida il più prestigioso d’Italia. Che cosa deve essere un grande museo mondiale? Spesso se ne parla come di un fattore di attrazione turistica, in chiave economica. Il Louvre o la National Gallery a Londra sono simboli nazionali, gli Uffizi che ruolo hanno? “Questo museo è l’ambasciatore del sistema museale italiano nel mondo. Perché gli Uffizi sono sostanzialmente il modello del museo occidentale europeo. Anche nella forma architettonica, che è stata imitata per secoli e che ha perseguito una visione che era la stessa della coeva della storia dell’arte. Gli Uffizi devono tornare ad avere questo ruolo, con ancora più convinzione”. Si tratta dunque di coniugare la forza del passato con un ruolo nel mondo globalizzato del futuro. “Oggi dalle nuove acquisizioni scientifiche, e anche dal cambio complessivo delle nostre culture, esce una visione diversamente articolata rispetto al passato stimolata dalla sensibilità del nostro tempo. Pensiamo agli scambi tra nazioni, alle dinamiche geopolitiche, alla storia sociale e materiale, persino a quella ambientale, a come si è modificato lo stesso giudizio estetico. A come lo stesso concetto di ‘arte’ abbia dovuto ridefinirsi, acquistando in problematicità secondo alcuni, in universalità secondo altri. Arte è un concetto profondamente umanista, che chiama in causa l’uomo quale mediatore tra Dio e la creazione. Cosa succede se lo applichiamo ad altre culture o persino in riferimento al nostro stesso passato, in cui gli esseri umani non avevano necessariamente lo stesso statuto? L’Italia deve partecipare a questi dibattiti a pieno titolo oppure il rischio è quello denunciato da Adolfo Venturi a inizio Novecento, ovvero che la nostra storia la scrivano gli altri”. E’ anche il motivo per cui i musei all’estero si riallestiscono continuamente, in Italia siamo ancora un po’ fermi all’idea che toccare una cosa sia un mezzo delitto. “I musei sono costantemente riallestiti perché evolvono come evolve la ricerca. L’Italia ha ovviamente una storia particolare. il nostro senso della tradizione ha permesso di salvare come da nessun’altra parte in occidente il rapporto tra contenuti e contenitori, le collezioni storiche e le loro sedi. Questo ci permette di comprendere meglio anche perché un’opera degli Uffizi sia collocata proprio lì. Per fortuna. Purtroppo a questo è corrisposta anche una concezione del museo come dimora storica, collezionismo della famiglia regnante locale. E questo ovviamente occorre lavorare”.
Torniamo al tema di come guidare il pubblico. “Penso anche ai mezzi della tecnologia che ci permettono di costruire dei palinsesti interattivi estremamente sofisticati. La nostra missione è di fare interagire il visitatore con l’opera”. Perché cambiare la narrativa di una sala degli Uffizi è un aiuto alla comprensione? “Faccio un esempio: le cosiddette ‘sale verdi’ nell’ala di ponente le abbiamo ripensate facendo maggiore attenzione ai contesti. Abbiamo riproposto il flusso della storia dell’arte – in quel caso del centro Italia, che parte da Piero della Francesca e finisce con Luca Signorelli – tenendo conto sia delle singole dinamiche territoriali che delle loro influenze reciproche che è in fondo quello che succede nella storia: la sezione si chiude con la Firenze di Savonarola. Dunque introdurre in quella sala l’impatto che la predicazione del frate domenicano ebbe su Firenze aiuta a comprendere meglio quello che nell’arte viene dopo. Ugualmente dopo la sala del Tondo Doni abbiamo creato una sezione dedicata all’arte fiorentina sviluppatasi attorno ad Andrea del Sarto e ispirata ai grandi maestri delle sale precedenti, Michelangelo, Raffaello, Leonardo”.
Facilitare la percezione, insomma. “Stiamo lavorando alla creazione di sale caratterizzate dalla più lineare coerenza estetica affinché anche il visitatore che non sa, percepisca d’impatto la lineare concezione del mondo che scaturisce da una visione. Perché l’estetica è una forma di conoscenza dotata di una sua piena autonomia e di una sua progettualità. In questo, ci stiamo ispirando alla sala delle Maestà di Gardella, Michelucci, Scarpa, consapevoli del fatto che la museografia è un dispositivo scenografico, retorico. Il quale, quando è al servizio della filologia, come ci insegna Carlo Ginzburg, non va necessariamente in contraddizione con gli strumenti deontologici della storiografia. Seguendo questo filo rosso, con la mediazione digitale stiamo lavorando a una serie di percorsi che permetteranno di vedere anche il contesto che non c’è più. Per esempio per i ‘fondi oro’, la pittura sacra del Duecento e Trecento: riuscire a ristabilire le origini geografiche e culturali di ispirazione con l’arte bizantina, per esempio, sarà un vantaggio formidabile. Un altro aspetto di questo riallestimento riguarderà gli ambiti collezionistici. Perché sono così importanti? Non sono un aspetto troppo specialistico per un pubblico da flussi giganteschi? “Solo nella storia delle collezioni ci possono comprendere appieno le dinamiche culturali, biografiche, persino spirituali e ovviamente politiche della storia dell’arte e del gusto. Nel caso degli Uffizi, in cui c’è piena coincidenza tra mecenatismo e produzione artistica, tra chi le opere le ha commissionate e perché e chi le ha eseguite e come – una vera rarità – ciò porta quasi a delineare l’album di famiglia di un tempo storico, cosa che è emersa in maniera particolare nelle sale sul mecenatismo mediceo della mostra sul Settecento”. Spiega Verde che non si tratta soltanto di aggiungere opere, o percorsi. La spesso banalizzata “attrattività” del museo. Se gli Uffizi vogliono avere un ruolo nel grande cambiamento globale in atto nei sistemi museali – non solo il tema dei flussi turistici, ma soprattutto l’identità che vogliono trasmettere e il cambiamento dei paradigmi culturali, basti pensare ai rapporto tra ciò che è arte occidentale e l’arte degli altri – è necessario che partecipino a un ripensamento che non è solo un maquillage.
A questo proposito chiediamo a Verde: si parla spesso di un patrimonio gigantesco che giace chiuso nei depositi. Cosa ci stiamo perdendo? “C’è molta mitologia su questo patrimonio in deposito, in realtà c’è nel senso che abbiamo delle ali che sono chiuse per lavori, poi questo patrimonio ritornerà nelle sale. Ma bisogna distinguere fra opere d’arte e documenti: tutte le opere sono documenti, però ci sono alcune che hanno necessità e ragioni di essere esposte e altre un po’ di meno. Ma a questo servono la ricerca e le acquisizioni: ci sono tipologie di opere che erano considerate minori, e invece la ricerca scopre essere importanti”. Esiste un ritardo o una sudditanza italiana rispetto ai modelli internazionali? “No, questo no. Però c’è un dibattito sullo statuto del museo nella società contemporanea, che è velocissima e in continua ridefinizione, con i giovani studenti che fanno la loro formazione sui tablet piuttosto che sui libri o nelle sale dei musei. Noi non possiamo essere impreparati al ruolo del nostro patrimonio culturale in questa nuova società globale. L’Italia per fortuna queste derive le sta vivendo in maniera marginale. Siamo una società più coesa, che assorbe più lentamente questi elementi, ma prima o poi arriveranno e dobbiamo attrezzarci. I musei sono luoghi di formazione permanente, se svolgano il loro compito hanno un ruolo fondamentale”.
Un passo a lato, o sotto, il prezioso dibattito sull’identità futura dei musei c’è la problematica corrente che il direttore di un grande museo deve affrontare, spesso schivando le polemiche sensazionaliste. La problematica a cavallo tra ciò che viene definita “museum fatigue”, la difficoltà del pubblico a orientarsi dentro a esposizioni che a volte paiono sterminate, e l’overtourism, l’assalto alle città d’arte e ai loro gioielli. Come vanno affrontati questi fenomeni? “Noi stiamo perseguendo due o tre strade, che possono anche sovrapporsi. La prima è dare un’importanza centrale alla museografia. Che purtroppo è stata per decenni usata come una forma esteriore di spettacolarizzazione degli spazi, a volte compiendo dei danni anche gravi, svilendo le identità. Mentre la museografia se messa al servizio delle collezioni è uno strumento potentissimo perché permette di creare contesti estetici che, anche laddove un visitatore non conosce, percepisce però una visione del mondo. La stessa scelta dei colori, dell’illuminazione, anche il modo in cui si appendono le opere crea una situazione estetica, una sorta di teatralizzazione, che se condotta in maniera corretta è uno strumento fondamentale. Siamo intervenuti facendo in modo che le sale abbiano una tale purezza e una tale coerenza estetica che permettono a chiunque di percepire una visione del mondo, perché in fondo un’opera d’arte è una visione progettuale del mondo”. L’altra strada? “La seconda strada su cui dobbiamo lavorare sono i pannelli delle sale e tutto ciò che ha a che vedere con l’orientamento. Pensi che oggi gli Uffizi non hanno una piantina per i visitatori”.
C’è poi l’apporto delle tecnologie, altro elemento su cui spesso i musei italiani non sono all’avanguardia. “Tutto ciò che è mediazione digitale è un imperativo non più aggirabile ma che va perseguito con i giusti mezzi: va usata per aumentare l’intelligenza e la connessione delle collezioni e non per spettacolarizzarle, come se ne avessero bisogno. Uno schermo luminoso, un’immagine che si anima sono per forza di cosa più potenti nella percezione di un quadro statico che non si accende, che non si può ingrandire con due dita. Laddove sia utilizzata in maniera pertinente, quindi con margini di bassa luminosità, lento movimento e soprattutto in complementarità, la mediazione digitale non si sostituisce all’opera ma aiuta a comprenderla. E’ un cantiere su cui stiamo lavorando e su cui spero entro la fine dell’anno vedremo i primi importanti risultati”. Inoltre, spiega Verde, la “museum fatigue” si contrasta con la capacità di offrirsi come un centro di formazione permanente: “Io ho avuto la fortuna di fare corsi in parte davanti alle opere; e poi le conferenze, le visite guidate notturne Un museo non deve essere un luogo fermo. Il museo deve essere un luogo di ricerca e quindi anche di restituzione di questa ricerca, è una comunità che fa attività culturale”. Sarebbe utile avere più persone a disposizione nelle sale? “Assolutamente sì, ma ci sono, e i nuovi profili dei custodi prevedono proprio anche queste funzioni”. Aspettando i concorsi. “I concorsi li aspettiamo sempre, quelli servono sempre. Il ministero sta facendo degli sforzi sovrumani da questo punto di vista. Poi ci sono molti supporti esterni, collaborazioni con varie istituzioni. Anche se, ripeto, le risorse interne sono quelle più importanti”.
Torniamo all’overtourism, tema complicato per città come Firenze, che sembra negare la visione di museo che ci ha illustrato. Gli Uffizi sono uno sfogo per mandare i turisti da qualche parte, come sostiene certa critica ideologizzata, o invece un’aggravante? Il sistema deve essere rivisto anche nelle quantità di accessi? “Sulla quantità di accessi siamo già in regola con quella che stabilita per gli Uffizi, gli spazi sono storicamente limitati quindi più di tanto non si possono moltiplicare. E’ una leggenda che oggi sia peggio di prima, e devo dire ci sono delle ore in cui gli Uffizi sono vuoti, perché poi il paradosso è che vengono tutti alla stessa ora… Dunque è una questione di flussi da regolare meglio. Ma io credo che dobbiamo cogliere il cosiddetto overtourism non come una sciagura ma come un’opportunità”. In che senso? “Abbiamo l’opportunità di offrire il meglio dell’efficienza dell’Amministrazione italiana al più ampio numero di persone. E dobbiamo essere all’altezza di questa sfida che è anche reputazionale, perché quei cinque milioni di visitatori che entrano negli Uffizi si portano via un’immagine che non è soltanto del museo, ma dell’Italia”. Si dice che i grandi numeri vadano gestiti diversificando l’offerta. “Esatto. Noi stiamo lavorando moltissimo a Palazzo Pitti per il riallestimento del Tesoro, di cui quasi nessuno conosce l’esistenza anche se è uno più importanti al mondo, il tesoro mediceo-lorenese. Portare il pubblico a scoprire queste ricchezze di Pitti, o la sua Galleria d’arte moderna, poco nota, è essenziale. Aumentare dunque la qualità dell’offerta e diversificarla”. I musei vanno giudicati in base al fatturato? “No, il tema è a mio avviso totalmente diverso. Entro certi limiti, ovviamente, un museo che non attrae è semplicemente un museo che non fa il suo lavoro. Un museo che attrae, seguendo i principi deontologici della sua missione, è invece un museo che svolge con competenza il suo lavoro. Tutela e valorizzazione, quando siamo nell’eccellenza, coincidono. Perché valorizzare significa diffondere i valori del patrimonio culturale e dunque porre le basi perché venga rispettato e tutelato dalla collettività”.