Non sono i più forti, non hanno superstar designate. Eppure si sono fatti strada fino alla sfida per l’anello, a un quarto di secolo dall’ultima volta, grazie a un collettivo specialista in rimonte mai viste e specializzato a far giocar male gli avversari. Appunti da scuola basket
È un inno alla pallacanestro, dalle origini al presente. Quando il Dr. James Naismith inventava questo sport a fine Ottocento, battezzò lo Stato dell’Indiana come “sua patria adottiva per passione”. Oggi i sorprendenti Pacers si preparano a disputare la seconda finale Nba della loro storia – a un quarto di secolo dall’unico precedente. Nel mezzo, per tutto questo tempo, la franchigia di Indianapolis non ha mai vinto l’anello. Un eterno, implacabile digiuno. Toccherà a Tyrese Haliburton e soci sovvertire il pronostico una volta per tutte, realizzando quel che nemmeno il leggendario Reggie Miller era riuscito a completare. “Ora è diverso”, sono convinti a Indianapolis. E dopo aver conquistato l’Est – regolati i New York Knicks per 4-2 come nel 2000, in un’altra serie stellare – i ragazzi di coach Carlisle forse inizieranno davvero a sentire la responsabilità.
Perché finora Indiana è stata la perfetta underdog. Nessuna primadonna, nessun solista. Soltanto una corale macchina da canestro, all’insegna di un collettivo costruito per non dare alcun punto di riferimento agli avversari – e non solo a loro: l’Mvp designato delle Conference Finals sembrava essere Haliburton, alla fine è stato premiato Pascal Siakam. Ogni gara un protagonista diverso. Ogni gara lo stesso lineare copione: la palla gira veloce, i cestisti gialloblù occupano gli spazi, si sceglie la miglior giocata a disposizione (cioè non la più spettacolare, non la più allettante, ma quella con maggior probabilità di successo). Andrebbero studiati nelle scuole di minibasket, questi Pacers. Specialisti in rimonte oltre ogni assennatezza statistica, specializzati nel far giocar male gli altri. Da Antetokounmpo a Jalen Brunson. E chiunque oggi dica – tecnicamente a ragione – che Oklahoma City in finale sarà la stragrande favorita, Indiana è pronta a rispondere: perfetto. È sempre stato così.
Un dato su tutti. Per tre volte in questi playoff – gara-5 contro Milwaukee, gara-2 contro Cleveland e gara-1 contro New York – i Pacers si sono ritrovati sotto di sette punti a meno di un minuto dalla fine (al Madison Square Garden addirittura a -9). E tutte queste partite, alla fine, i Pacers sono riusciti a vincerle. Come mai era successo nella storia dei playoff (o meglio: in un solo caso su 1702). L’elemento di spicco è che nel punto a punto, fino alle circostanze più disperate, la palla non sempre s’incolla alle vellutate mani di un talentuoso playmaker come Haliburton. Ma gira, appunto. E chiunque sia chiamato a un tiro pesante lo infila con inscalfibile sicurezza. Una sera è Nembhard, un’altra è Nesmith, un’altra ancora è Mathurin. L’esito sempre lo stesso. Per gli avversari, una mazzata psicologica da ko.
Sono avvisati anche i Thunder: guai a farsi ingannare da quell’etichetta alla griglia di partenza – quarti classificati a Est – che i Pacers sfruttano come navigati illusionisti. Soltanto un paio di mesi fa, proprio Haliburton veniva votato dal resto dell’Nba come il giocatore più sopravvalutato della lega. Oggi invece l’Nba viaggia attorno a due perentorie certezze: acclamerà presto degli inediti campioni – anche Oklahoma non ha mai vinto il titolo – e ha imparato a prendere i gialloblù dannatamente sul serio. Chi non l’ha fatto ora è fuori. E non ha ancora capito come sia successo. A Indianapolis la chiamano Hoosier hysteria: febbre da pallacanestro. Di questi tempi, contagiosissima.