Di lettere e luce. Antonio Moresco si dichiara a Leopardi

Nel suo nuovo libro “Lettera d’amore a Giacomo Leopardi” l’autore crea un un dialogo tra due “Don Chisciotte” che affrontano “la tenace e terribile vita e le sue illusioni”. “La vita senza immaginazione è una carneficina”, scrive citando l’ottocentesco Giacomo, nel segno di una ribellione poetica contro il cinismo del nostro tempo

Il suo personaggio di romanzo preferito è Don Chisciotte. E in Chisciotte, un “inclassificabile e sghembo romanzo” (parole sue), di sole cento pagine, pubblicato cinque anni fa da Sem con l’intenzione di farne un film strampalato e pieno di interpreti-amici, Antonio Moresco s’identifica talmente con questo eroe esagerato e perdente da prestargli le proprie sembianze sulla copertina, in camicia da notte e cappello piumato a testimoniare follia e oltranza, forme dello “sconfinamento” che gli sta molto a cuore. Adesso che è appena uscito un nuovo libro, Lettera d’amore a Giacomo Leopardi, edito da Solferino, i don Chisciotte diventano due: Moresco stesso e il poeta di Recanati che si confrontano sull’indifferenza o l’incomprensione dei contemporanei verso la loro opera e soprattutto “sulla tenace e terribile vita e sulle sue illusioni”. Leopardi è un poeta e filosofo e narratore molto amato da Moresco che lo cita spesso nelle sue pagine, ma molto amati sono anche altri scrittori, come Dante, Kafka, Emily Dickinson, Melville, tutti presenti nel viaggio letterario di L’adorazione e la lotta uscito nel 2018 da Mondadori. Allora come prima domanda voglio sapere perché ha scelto il grandissimo Giacomo per questa lettera che diventerà a un certo punto una scorribanda nei cieli senza freni né confini…



“Perché il mio primo amore è stato Leopardi e quindi una lettera d’amore potevo scriverla solo a lui. E poi perché a Dante e a Kafka avevo già scritto: al primo sotto forma di un intero libro, un corpo a corpo con la sua vita nuova [in La vita nova di Dante, il Saggiatore, 2021], a Kafka con la mia prefazione e postfazione alle Lettere a Milena [Feltrinelli, 2024]. Forse gli unici altri a cui potrei scrivere una lettera d’amore sono Van Gogh ed Emily Dickinson. E poi ci sarebbe quel portento di Melville, che aveva visto e capito tutto. Ma come si fa a scrivere una lettera d’amore a uno così, con quel barbone…”.


Effettivamente il barbone rosso di Herman Melville, insieme ai suoi occhi spiritati, non invitano alla confidenza. Invece con Leopardi stabilisci una forte sintonia. E’ un autore scomodo persino oggi, a meno che non venga letto “in modo addomesticato”, cioè quel modo – immagino – che lo riporta in continuazione a dolore e solitudine, alla gobba, al brutto naso e alla sfiga con le donne. E al lato contemplativo anche, che non esaurisce la sua potenza letteraria, poetica e saggistica. Infatti tu citi molto lo Zibaldone. E poi è un “insurrezionale” come te, parola che usi molto, non solo in questo libro. Anzi hai dato il titolo Scritti insurrezionali (Effigie 2014) a una breve raccolta di tuoi editoriali sulla rivista Il primo amore. Ma ora dimmi: in che senso Leopardi è insurrezionale?



“E’ insurrezionale perché fa piazza pulita del mito moderno del progresso e delle pretese antropocentriche degli umani, che ci hanno portato al punto in cui siamo; perché dice che l’uomo non è avulso dal resto della natura né superiore a essa; perché dice che il male è nell’ordine ma nello stesso tempo salva la disperata e vivificante forza delle illusioni; perché dice che la vita senza immaginazione è una carneficina…”.


Fammi capire, per te uno scrittore se non è insurrezionale, non è?


“Ma no. Ci sono scrittori di tutti i generi e tipi, e io, se è vero che amo in modo particolare scrittori e artisti che sono – ciascuno a suo modo – insurrezionali, come Dante, Rabelais, Shakespeare, Cervantes, Swift, Stendhal, Balzac, Büchner, von Kleist, Emily Dickinson, Van Gogh, Melville, Dostoevskij, il calpestato ma irriducibile Kafka… amo anche scrittori che non potrei definire insurrezionali, come la meravigliosa Murasaki, il misterioso autore del Sogno della camera rossa, Flaubert, Cechov, Proust… Però su quest’ultimo ci sarebbe da discutere perché, a modo suo, è anche lui insurrezionale…”.


Hai dimenticato Céline, che definisci “un Leopardi teppista”. Moresco si mette a ridere, perché alla faccia di chi lo vede sempre triste e ingrugnato – e in effetti nelle foto lo sembra sempre, se non triste pensoso e scocciato – sa anche divertirsi e ridere come un matto. “Ma scusa”, protesta saggiamente, “mi ci vedi a farmi selfie e tirare le labbra da un orecchio all’altro per sembrare felice e carino?”. Neanche un po’, rispondo, e rido anch’io. Ma ora torniamo seri e affrontiamo un nodo centrale di questa tua lettera d’amore: “L’Italia costituisce un problema per i suoi scrittori”, scrivi a un certo punto. Mi spieghi? E mi dici se lo pensi anche degli scrittori di oggi, visto che attribuisci l’osservazione a Leopardi?



“Ma sì, perché l’Italia è un paese fratricida e ha sempre fatto vedere i sorci verdi ai suoi scrittori non allineati, fin dall’inizio, da Dante, passando per Leopardi, e poi fino a Pasolini. Gli scrittori italiani hanno sempre il paese addosso, un paese perennemente incompiuto, spesso cinico, opportunista, servile, disincantato… Il paese più cinico d’Europa – a detta di Leopardi – con la borghesia più cinica d’Europa, con il popolo più cinico d’Europa… Io metterei in questa schiera cinica anche quello che Leopardi chiamava ‘il volgo dei letterati’. Anche oggi come nel passato – a parte gli scrittori di maggiore successo commerciale e dall’immediato ritorno economico – mi sembra che altre nazioni difendano e valorizzino molto di più i loro autori”. Pare anche a me, all’estero riescono a riconoscere il valore di certi scrittori allineati a niente o “scomodi”, altra parola che prendo da te. Scomodi perché non addomesticati? Mi fai un ritratto di scrittore addomesticato di oggi? “Per come la vedo io, lo scrittore addomesticato di oggi è lo scrittore senza intransigenza, senza fede, senza radicalità, senza passione, senza onore, inoffensivo e galateale, ligio allo spirito del tempo e ai voleri puramente commerciali degli editori, che sa fiutare il vento, che sa mettersi nelle cordate e nei giri giusti, che costruisce e promuove se stesso come un prodotto industriale, una saponetta, degno erede degli antichi letterati servi allevati nelle corti dei principi”.


Però mi sembra che la parola di nuovo conio “amichettismo”, che riassume quanto hai appena detto, non ti piaccia. Per la confusione sonora con la parola amicizia? “Non mi piace infatti. Altra cosa è l’amicizia profonda, elettiva, che si può creare a volte tra gli scrittori, le scrittrici e gli artisti che si trovano a vivere le loro brevi vite nello stesso segmento di tempo, e che è sempre stato il sale della vita e dell’arte, che è fatta di persone, di corpi, che vivono, che bruciano”.



A un certo punto del libro, Moresco e Leopardi riescono in una metamorfosi: si tramutano in rondini, libere, folli, felici, e intraprendono un viaggio vedendo le cose dall’alto. Il lettore viene letteralmente travolto da questi voli inaspettati e diventa uccello anch’esso, e li segue festosamente fra svolazzi e gorgheggi e partecipa agli scambi mentali che si librano magicamente nell’aria insieme a loro. E dall’alto si vedono meglio le grandi imposture degli umani, le loro interminabili guerre, le torture atroci che sanno inventare per farsi più male. Perché “il male è nell’ordine” come scriveva Leopardi e lo vediamo ovunque intorno a noi. Verranno mai tempi migliori? “Ah, questo è il problema dei problemi. Perché una simile pervasiva presenza del dolore e del male nel mondo? Le religioni, le filosofie hanno dato spesso spiegazioni consolatorie o si sono arrampicate sugli specchi. La verità, l’aspra ma corroborante verità ce l’hanno detta gli scrittori, i poeti: come i tragici greci, Shakespeare, Cervantes, con il suo cavaliere, Leopardi, Melville, con il suo capitano folle e la sua balena, Dostoevskij, con il suo Grande Inquisitore, i suoi idioti e i suoi demoni, Collodi con il suo burattino, Kafka, con il suo spaesato agrimensore e il suo uomo trasformato in un insetto… fino a Beckett, con i suoi vagabondi e il suo innominabile, Gadda, con la sua cognizione del dolore, Primo Levi, con i suoi sommersi e salvati… Leopardi non si nascondeva la possibilità di un mondo senza più gli umani e che la nostra specie potesse un giorno non abitare più il nostro pianeta, come è successo a molte altre specie nel corso del tempo e come può succedere anche a noi in tempi relativamente brevi, se continuiamo a proseguire su questa rotta folle e suicida. Mi chiedi se vi saranno tempi migliori. Ti posso dire solo: speriamo. Però dovrebbe avvenire qualcosa di impensato, una sorta di irruzione fiabesca dentro la vita, non solo un cambiamento orizzontale ma un cambiamento verticale, una metamorfosi”.



Ma secondo te, al netto dei ragionamenti che si scambiano i tuoi protagonisti, siamo più crudeli che mai oggi o ne sappiamo solamente di più? “Siamo sempre stati crudeli. Oggi, per la moltiplicazione industriale della nostra crudeltà avvenuta negli ultimi tempi di accelerazioni suicide, abbiamo i mezzi e le forze per esprimere la nostra rapacità, la nostra ottusità e la nostra follia in modo infinitamente più grande e più devastante”. Insomma, ci è capitata la peggiore epoca in cui vivere? “Non lo so. Certo è che, se gli umani hanno vissuto anche in passato in epoche terribili e ancora più terribili, se hanno vissuto esperienze indicibili, mai era successo prima che si trovassero su un simile crinale di specie e a rischio di estinzione, di fronte a una simile catastrofe o a una simile chance”. E l’intelligenza artificiale ti fa paura? “Un po’ sì e un po’ no. Può essere una cancellazione o una reinvenzione di specie. Ma ci sono tante forze e tanti apprendisti stregoni che vogliono o si illudono di diventarne i manipolatori e i padroni… Quello che mi fa ridere è lo sgambetto linguistico e lessicale, il fatto che, pur in assenza di quella naturale, questa qui sia stata chiamata intelligenza artificiale”. Ecco, ma adesso basta catastrofismi. Dimmi invece: cosa ti piace della “tenace, terribile vita”? “Mi piace la sua sbalorditiva insondabilità, la sua inestricabile, romanzesca compresenza, la sua cecità, la sua veggenza, mi piacciono l’adorazione e la lotta, mi piace camminare con le mani in tasca, di notte, mi piace stare senza pensare a niente di fronte alle apparizioni del mondo, e poi, sì – accidenti! – mi piace quell’invenzione tellurica che gli umani hanno chiamato amore”.



A proposito di camminare con le mani in tasca, non si può parlare di Antonio Moresco dimenticando che sei stato un gran camminatore. Ricordo anche due libri, Stella d’Italia (Oscar Mondadori, 2013) e Il sogno del cammino con Aboca, tre anni fa… “Ho fatto molti cammini, in Italia e all’estero, con un gruppo di camminatori e di sognatori che hanno preso il nome di Repubblica nomade. Mi piace ricordare il primo, più di mille chilometri e quattro diversi Paesi, attraversando le Alpi, dormendo come sempre per terra nei sacchi a pelo, o in strutture messe generosamente a disposizione: rifugi antiatomici, palestre, ostelli, conventi di monache di clausura… Non c’è niente come un lungo cammino a piedi per farti comprendere le realtà attraversate e aprirti la mente. Alla fine di questo cammino siamo stati ricevuti al Parlamento europeo dall’allora presidente Martin Schulz, nella Sala protocollare, come se fossimo dei capi di stato. L’ultimo cammino che ho potuto fare, due anni fa, è stato dal cratere del Vesuvio a quello dell’Etna, per dire che siamo sull’orlo di un vulcano, e che il vulcano siamo noi”. Una curiosità letteraria: quali sono gli scrittori viventi (stranieri, non ti voglio mettere in imbarazzo) che ami di più? “Beh, c’è ancora in circolazione da qualche parte l’invisibile Thomas Pynchon… E stimo molto e sono amico di un altro scrittore americano di nome William Vollmann [in Italia è stato tradotto qualcosa da Mondadori, Fanucci e minimum fax]. In Europa c’è Mircea Cartarescu [ampiamente tradotto da Bruno Mazzoni per Voland e Saggiatore] col quale ho anche pubblicato una conversazione intitolata Dentro lo stesso sogno [Wojtek edizioni, l’anno scorso]”.



E dei tuoi libri, a quali sei più affezionato? “Mi riesce difficile rispondere a questa domanda, ma direi ai Canti del caos da una parte [Mondadori 2009, 1.070 pp.] e La lucina dall’altra [Sem, 2023, 173 pp.], i due apparentemente opposti. Però il libro per il quale ho più considerazione, quello più vicino alla mia mente e al mio cuore, è quello meno considerato e compreso: Gli increati [Mondadori, 2015, 1.015 pp.] che conclude la mia opera in tre parti, scritta nell’arco di trentacinque anni e intitolata Giochi dell’eternità. Però sono molto legato anche a Lettere a nessuno [Einaudi Stile Libero, 2008, 728 pp.] il mio diario di adorazione e di lotta, il mio libro scorticato, il mio epistolario esploso”. Sei soddisfatto del tuo posizionamento nel nostro ambiente letterario? “Cosa ti devo dire… Sono sempre là, in una zona mia, in un interregno. Anche adesso e persino adesso che ho cent’anni… Ci sono lettori che accolgono e amano quello che scrivo, anche tra gli scrittori ho degli attenti e appassionati lettori, tanti giovani hanno fatto e continuano a fare tesi di laurea sui miei libri, dall’estero mi stanno arrivando segnali di attenzione fuori dal comune, mentre in Italia… c’è spesso un’ostilità preconcetta, una mancanza di comprensione e accoglienza, di serietà e radicalità, cinismo, sospetto verso ciò che appare inclassificabile, incontrollabile, alieno da parte del grosso del mondo culturale che sa riconoscere le presenze atipiche solo all’incontrario… Ma va bene così”.



Com’è la tua vita oggi? “Vivo in modo precario e libero. Ho seri problemi cardiaci ma – come ho sentito dire da un jazzista – sto continuando a darci dentro fino alla fine. Ho scritto gli ultimi libri – e in particolare questo su Leopardi – sempre, ogni giorno, ogni ora, al cospetto della morte. Ma in fondo è così che scrivono sempre gli scrittori, è così che sono stati scritti tutti i libri del mondo: al cospetto della morte, al cospetto della vita”.

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