Dalle storie di Alessandro Magno alla “fica” nascosta. Simboli, riti e razionalità: gli antropologi Elisabetta Moro e Marino Niola raccontano perché credere nell’invisibile può renderci più umani, nonostante (o grazie a) la tecnologia
Giorni fa, bighellonando tra le prolisse pagine delle “Storie di Alessandro Magno” di Quinto Curzio Rufo, ci siamo imbattuti in una reprimenda al Macedone accusato di essere credula vittima della superstizione, “humanarum mentium ludibria”. Le mirabolanti imprese del condottiero non ammorbidirono il disappunto dell’autore, vissuto all’epoca di Gesù e scettico di specie sdegnosa, una delle due in cui da sempre si dividono gli increduli integrali: l’altra categoria, quella degli irridenti, ha invece prevalso dall’Illuminismo in poi inducendo i seguaci del “non è vero ma ci credo” a praticare con più riservatezza i riti personali per evitare gli sfottò degli Odifreddi.
Pingue zona di caccia per studiosi mercuriali, l’area della superstizione coi suoi confini piuttosto indefiniti ha tentato gli antropologi Elisabetta Moro e Marino Niola all’indagine condensata nel libro “Gatti neri e specchi rotti”, uscito per Einaudi con l’intento di spiegare perché la tecnologia non abbia sfrattato né scalfito certe credenze e come queste, anziché impastoiare, avvantaggino chi le coltiva. Vicentina di nascita, ordinario di Antropologia culturale all’università di Napoli Suor Orsola Benincasa, Moro stessa si confessa non immune dalla superstizione, forse per influsso dell’ambiente partenopeo.
La superstizione fa bene o male?
Fa benissimo se non ottenebra la mente ma esprime un’altra forma di intelligenza della vita, che tempera certi eccessi di sicurezza della ragione e ci restituisce il senso dei nostri limiti conoscitivi. Al contempo, il pensiero simbolico alimenta nessi significativi, punti di vista ulteriori e narrazioni tutt’altro che banali. Chi vi rinuncia in nome di un malinteso evoluzionismo amputa un pezzo di sé con effetti contrari a quelli cui aspira, scontando una perdita di ricchezza emotiva.
In che modo?
Come attestano diverse ricerche accademiche, chi è superstizioso nella giusta misura assume atteggiamenti più efficaci rispetto alle incognite della vita. Semplificando: il pensiero simbolico non è antitetico ma funzionale all’evoluzione umana. Si rivela proficuo anche perché agisce da placebo, mitigando i sensi di colpa prodotti da una educazione rigorosamente razionalista ovvero rigorosamente religiosa, con cui si attribuisce all’individuo la totale responsabilità di quanto gli accade.
Si può dar colpa di un insuccesso all’imponderabile, a un importuno 17, a un omesso rituale, persino al malocchio assolvendosi da eventuali mancanze?
La ragione non deve abdicare, ma l’uomo è come un’auto ibrida: il motore termico e quello elettrico s’alternano nel muoverla. Con un ulteriore esempio, è come passare da un’app all’altra in un doppio funzionamento del pensiero. Se i rischi della superstizione sono ben additati, quelli dell’iper-razionalismo consistono nell’illusione di un superuomo padrone di tutto, il quale poi magari esercita in privato i riti scaramantici che si vergogna di praticare in pubblico.
Superstiziosi si nasce?
Si diventa. Assorbendo un’esperienza culturale tramandata nel corso di quest’avventura cui partecipiamo tutti, una generazione dopo l’altra, e che si chiama vita. Se siamo pronti a confrontarci con l’insolito progrediamo meglio. Al contrario lo scetticismo integralista è nocivo anche dal punto di vista biologico, perché reclude le risorse nella pura razionalità.
Lo sviluppo tecnologico contrasta le credenze irrazionali?
L’umanità è esposta da sempre alle innovazioni, eppure le superstizioni sono ancora qua. Le ricerche dimostrano che il venerdì 17 in occidente incide su consumi, scambi finanziari, visite mediche. La nostra società ha un approccio razionalistico verso la storia ma esercita ancora la superstizione. Il 47 per cento dei francesi, pronipoti degli enciclopedisti, crede che la zampa di coniglio porti fortuna. E tutti, a San Silvestro, ci scambiamo via WhatsApp simboli apotropaici proprio grazie ai dispositivi elettronici.
Qual è il confine tra religiosità e superstizione?
Dov’è, piuttosto, perché è labile. È difficile stabilire se chi porta a un ammalato il fazzoletto che ha toccato la tomba di sant’Antonio a Padova compia un atto devozionale o superstizioso.
Chi sono i più superstiziosi?
Posso provocare? Sono quelli che hanno fede inossidabile nella dea ragione. Marciano con un motore solo perché, superstiziosamente, escludono per principio l’inesplicabile.
Lei è superstiziosa?
Mi ispiro al Nobel per la fisica Niels Bohr, che aveva un ferro di cavallo nel suo studio. Diceva: “Non ci credo, ma funziona”.
I simboli della fortuna cambiano con i tempi?
Attualmente è in calo il quadrifoglio, forse perché c’è meno tempo e meno luoghi per cercarlo, mentre si sono diffuse di più le dita incrociate grazie ai linguaggi digitali.
Il suo antidoto personale?
L’antichissimo gesto delle fica, ricordato anche da Dante nella Divina Commedia. Ovviamente lo faccio di nascosto.
Funziona?
Non so, ma mi fa stare meglio. Come la spilla che usava Obama in campagna elettorale e i tarocchi che consultava Clinton.
Una frase che suscita lo scongiuro?
Nel galateo della superstizione dire a qualcuno “ti invidio” equivale a una pugnalata, anche se si proferisce con le migliori intenzioni. “Invidere”, in latino “guardare bieco”, genera malocchio.
Bisogna leggere gli oroscopi?
Sono la banalizzazione dell’astrologia, la versione impoverita dell’osservazione dei pianeti, che erano simboli potenti per immaginare mondi ed esplorare l’interiorità. Ci si deve guardare da chi li usa per estorcere denaro senza però dimenticare quel sapere immenso, anche se non è collocabile tra le scienze esatte.