Miguel Ángel Asturias: il primo boom dimenticato

Lo scrittore ha anticipato il realismo magico e poi è caduto nell’oblio. Oggi il Guatemala si riprende da Parigi le sue spoglie e il paese riscopre il padre ispiratore del boom latinoamericano

Il 13 aprile è morto a 89 anni Mario Vargas Llosa. L’ultima settimana di maggio il primo libro di Gabriel García Márquez, “La hojarasca”, ha compiuto settant’anni. Il 20 maggio è stato annunciato che saranno rimpatriate in Guatemala, dal cimitero parigino Père Lachaise, le spoglie di Miguel Ángel Asturias. Lo stesso giorno suo figlio Miguel Ángel Asturias Amado e il presidente del Guatemala Bernardo Arévalo de León hanno consegnato un simbolico lascito composto di tre cartelle con documenti che hanno fatto parte della vita dello scrittore all’Istituto Cervantes – massima istituzione dell’ispanofonia mondiale – durante l’inaugurazione del festival letterario “Centroamérica Cuenta” a Ciudad de Guatemala, e dedicato proprio ad Asturias. Invece, il 21 maggio Leonardo Padura Fuentes ha presentato a Madrid un suo saggio, dal titolo “Alejo Carpentier y la narrativa de lo real maravilloso”. Coincidenze temporali, ovviamente, ma che mettono a fuoco in maniera straordinaria grandi temi intrecciati tra di loro. Mario Vargas Llosa, peruviano, era l’ultimo ancora in vita tra i quattro grandi del cosiddetto “boom”. Il primo a morire fu l’argentino Julio Cortázar, vissuto tra 1914 e 1984, e l’unico dei quattro senza Nobel. Il più anziano era il messicano Octavio Paz, nato anche lui nel 1914 ma cinque mesi prima, vissuto fino al 1998, e premio Nobel nel 1990. Il primo ad avere il Nobel era stato però il colombiano Gabriel García Márquez, vissuto tra 1927 e 2014, e premiato nel 1982. Il più giovane, appunto, il peruviano Mario Vargas Llosa, nato nel 1936 e Nobel nel 2010.



Non ci sono stati solo questi “Fantastici quattro”. Nella sua “Vita di Gabriel García Márquez”, Gerald Martin aveva riportato una definizione di José Donoso, scrittore cileno, come “il quinto esponente del boom” (il che equivaleva a essere il quinto componente dei Beatles). Ma era stato proprio Donoso con le sue due cronache, “Storia personale del boom” e “Il giardino accanto”, a lanciare la definizione di “boom” per quel movimento letterario che tra gli anni 60 e 80 portò l’America Latina alla ribalta della scena letteraria mondiale. Vengono spesso associati al boom anche il messicano Carlos Fuentes e soprattutto la cilena Isabel Allende. Quest’ultima riprende sì tematiche e tecniche narrative tipiche del movimento, ma le mescola a uno stile da letteratura più popolare, quasi da collana harmony. Nonostante questo, o forse proprio per questo, è quella che ha probabilmente venduto di più. Piuttosto simile è il caso del cileno Luis Sepúlveda. Cileno è Roberto Bolaño, che ha rappresentato non solo un post-boom, ma anche una sua contestazione postuma. E pure cileni erano due dei tre Nobel per la letteratura latino-americani antecedenti i tre del boom: Gabriela Mistral, insignita del premio nel 1945, e Pablo Neruda, Nobel nel 1971. Ma tra di loro c’è appunto il guatemalteco Miguel Ángel Asturias, premiato in quello stesso 1967 in cui l’uscita di “Cent’anni di solitudine” di García Márquez fu considerata l’inizio simbolico del boom.


Gli incontri tra tutti questi personaggi sono stati molteplici.

Ci fu un momento in cui Cortázar, García Márquez e Vargas Llosa si frequentavano assiduamente e si ospitavano a Parigi. Maurizio Serra, diplomatico e scrittore italiano che con Vargas Llosa ha condiviso il privilegio di essere uno dei due stranieri ammesso tra gli Immortali dell’Académie française, ci ha testimoniato però che nella Ville Lumière tendevano a non combinare niente, perché troppo attratti dalle bisbocce. Per cui, quando decidevano di “produrre” se ne andavano a Londra e si mettevano a scrivere nel British Museum. Vargas Llosa nel 1971 aveva anche dedicato a “Cent’anni di solitudine” la propria tesi di dottorato all’Università Complutense, poi pubblicata come saggio col titolo “García Márquez: historia de un deicidio”. E nel 1968 era già uscito “Dos soledades: un diálogo sobre la novela en América Latina”, che riprendeva un dibattito tra i due avvenuto a Lima un anno prima. Il 1971 fu anche l’anno del caso Heberto Padilla, poeta cubano arrestato per scritti non conformi. Ne venne una rottura anche personale tra chi tagliò con il regime castrista, come Vargas Llosa e Paz, e chi continuò invece a sostenerlo, come Cortázar e García Márquez. Quando, dopo un po’ di tempo senza vedersi, il 12 febbraio 1976 García Márquez andò a salutare Vargas Llosa a Città del Messico, fu addirittura accolto e messo a terra da un pugno. Pare che a parte la politica ci fossero state di mezzo altre cose, mai chiarite.



Un legame implicito è stato individuato anche tra Neruda e Jorge Luis Borges, saggista e poeta prima del boom, autore di racconti ma mai di romanzi, che il Nobel non lo ebbe mai. Sembra perché a Stoccolma non gradirono il suo pur temporaneo avvicinamento al regime militare argentino, in nome di un accanito anti peronismo. In particolare il “Canto General” di Neruda, sorta di cronaca enciclopedica in versi della storia latinoamericana, fu preso in giro da Borges in “L’Aleph”: il racconto di un misterioso oggetto sferico – a sua volta, per ammissione dello stesso Borges, ispirato all’“Uovo di cristallo” di Herbert George Wells – che permette, come una telecamera, di affacciarsi con la vista in tutti gli angoli del mondo, e che il mediocre poeta Carlos Argentino Daneri utilizza per documentarsi nel comporre un prolisso e tedioso poema in cui vorrebbe “mettere in versi tutta la rotondità del pianeta”. “Nel 1941 già aveva sbrigato alcuni ettari dello stato di Queensland, più di un chilometro del corso dell’Ob, un gasometro a nord di Veracruz, le principali ditte commerciali della parrocchia della Concezione, la villa di Mariana Cambaceres de Alvear in via Undici Settembre, in Belgrano, e uno stabilimento di bagni turchi posto non lungi dal ben noto acquario di Brighton”. Nel suo “Viaggio letterario in America Latina” Francesco Varanini osservava che in realtà “entrambi si rifanno a Whitman, le sue Foglie d’erba intese come testo protostorico, catalogo, enumerazione, prima e mitica descrizione dell’universo americano, ovvero della nuova nazione, della nuova società. Ma il modello è rivisitato dai due in modi opposti”.


Ma il confronto più significativo è quello che si verifica nel 1967 tra il García Márquez di “Cent’anni di solitudine” e l’Asturias del Nobel, che per molti versi del boom e di Gabo sarebbe antesignano. “Ragazzo del 1899” esattamente come Borges, figlio di un avvocato e di una insegnante liberali che per evitare problemi col dittatore Manuel Estrada Cabrera vanno a vivere in campagna, e per questo da piccolo in contatto con le tradizioni profonde del Guatemala maya, laureato con una tesi sul problema sociale degli indios, anche lui va poi 25enne a Parigi, dopo una permanenza a Londra. Può dunque sia visitare le collezioni di arte maya al British Museum, sia frequentare le conferenze sulla civiltà maya tenute nel Collège de France e i corsi universitari della Sorbona sulle religioni centroamericane tenuti da Georges Raynaud, traduttore del libro sacro degli indios quiché, il “Popol Vuh”. Esperienze che, spiegherà Asturias, lo aiutano a “ritrovare sé stesso”, e nel contempo conosce personaggi come Luigi Pirandello, Georges Braque, Thomas Mann, Pablo Picasso, James Joyce, Tristan Tzara, André Breton e Louis Aragon. Dopo aver tradotto il “Popol Vuh” e l’altro classico maya “Anales de los Xahil”, corrispondente di giornali latinoamericani come sarà Gabo, nel 1930 Asturias pubblica le “Leggende del Guatemala”, dedicate “a mia madre che raccontava storie”.



Qui viene individuato l’inizio di quel “realismo magico” che sarà la cifra più famosa di García Márquez e che nasce dal confronto tra il lussureggiante simbolismo barocco dei Maya e la sperimentazione psicoanalitica dell’avanguardia europea. Un “surrealismo indio” che dovrebbe rappresentare per l’America Latina il vero realismo. “Nell’oscurità cominciarono a sorgere immagini fantastiche e assurde: occhi, mani, stomaci, mascelle”. Così, in termini onirici, ma in realtà assai nitidi, quanto e più di una fotografia, Asturias descrive la sua foresta tropicale: “Molte generazioni di uomini si strapparono la pelle per foderare la foresta. Inaspettatamente mi trovai in un bosco di alberi umani: vedevano le pietre, parlavano le foglie, ridevano le acque e si muovevano di propria sponte il Sole, la Luna, le Stelle, il Cielo e la Terra”. “Storie-sogni-poemi” li definì subito Paul Valéry nella prefazione all’edizione francese, “prodotti inebrianti di una terra poderosa e sempre convulsa, in cui le diverse forze che hanno generato la vita dopo avere innalzato uno scenario di roccia e humus sono ancora minacciose e feconde, come disposte a creare, tra due oceani, a colpi di catastrofe, nuove combinazioni e nuovi temi di esistenza!”.


Attenzione: va ripetuto che in questo barocco in apparenza così nativista ha avuto un grande ruolo la cultura europea. La stessa parola “realismo magico”, quando escono le “Leggende del Guatemala”, esiste già: creata dal critico tedesco Franz Roh, sia pure riferita non alla letteratura ma a pittori come Ivan Albright, Paul Cadmus, George Tooker e Antonio Donghi.

La sua applicazione esplicita alla letteratura risale invece alla famosa prefazione con la quale nel 1949 lo scrittore cubano Alejo Carpentier apre la prima edizione del suo romanzo “Il regno di questo mondo”: “Per la verginità del paesaggio, per l’ontologia, per la presenza faustiana dell’indio e del negro, per la rivelazione che costituì la sua recente scoperta, per i fecondi meticciati che propiziò, l’America è ben lungi dall’aver terminato la sua scorta di mitologie”, scrive. “Che cosa è la storia dell’America tutta se non una cronaca del reale meraviglioso?”. L’idea, insomma, è che il razionalismo europeo non può cogliere la specificità dell’uomo e dell’ambiente del Nuovo Mondo, e che al barocchismo lussureggiante della natura americana e al misticismo panteista che vi si alimenta si può arrivare solo attraverso il mito. Anche se secondo Padura Fuentes il realismo magico di Asturias e García Márquez non corrisponde esattamente al reale meraviglioso di Carpentier, “il realismo magico accetta il fantastico come parte indistinguibile della realtà; il reale meraviglioso, invece, presenta il magico da un approccio logico, quasi razionale”. Su consiglio di Valéry, Asturias torna comunque nel 1933 in Guatemala. Docente di letteratura e giornalista, alle prese con l’altra dittatura di Jorge Ubico y Castañeda, nel 1942 diventa deputato. Una carriera politica che lo avvicina sia all’esperienza di Neruda in Cile, senatore comunista e candidato presidenziale, sia a quella di Vargas Llosa in Perù, candidato presidenziale liberale. Nel 1944 viene democraticamente eletto presidente Juan José Arévalo Bermejo, padre dell’attuale presidente, che nomina lo scrittore addetto culturale dell’ambasciata in Messico. Asturias inizia così una carriera diplomatica che pure è piuttosto diffusa tra i letterati latino-americani: Neruda, Paz, Fuentes… A Città del Messico nel 1946 pubblica il romanzo “El Señor Presidente”, ispirato al regime di Estrada Cabrera, ma più generale atto di accusa contro tutti i dittatori latinoamericani, e modello più volte emulato dagli scrittori del boom. In particolare con “L’autunno del patriarca” di García Márquez e “La festa del caprone” di Vargas Llosa.



“Uomini di mais”, scritto nel 1949 mentre è ambasciatore a Buenos Aires, è la rappresentazione del conflitto fra gli indios, gli uomini di mais, e i maiceros, i coltivatori di mais, che tagliano e bruciano gli alberi per ottenere campi. Protagonista è Gaspar Ilom: diventerà il nome di battaglia di suo figlio Rodrigo, come fondatore del gruppo guerrigliero Organizzazione del popolo in armi. Anche questi sono temi che il boom saccheggerà, come d’altronde quel “ciclo bananero” sulla lotta tra una multinazionale Usa e contadini nei tre romanzi “Vento forte” (1950), “Il Papa verde” (1954) e “Gli occhi che non si chiudono” (1960). Consigliere d’ambasciata a Parigi e poi ambasciatore in El Salvador, Asturias appoggia così il progetto di riforma agraria del nuovo presidente Jacobo Arbenz Guzmán, che però nel 1954 è rovesciato da una spedizione militare appoggiata dalla Cia, che lo taccia di essere comunista. In realtà, quel che accade è in marcata contraddizione con altri contesti in cui gli Usa in generale e la Cia in particolare hanno appoggiato riforme agrarie per prevenire il comunismo. In “Tempi duri”, opera del 2019 che è il suo ultimo romanzo, Vargas Llosa bolla un errore che piuttosto ha favorito la diffusione del comunismo in America Latina. Ma anche questo libro di Vargas Llosa viene dopo “Weekend in Guatemala”: il libro del 1956 che Asturias dedicò a quella vicenda dopo che il nuovo regime lo aveva non solo privato dell’incarico diplomatico e mandato in esilio, ma gli aveva addirittura tolto la cittadinanza. Dieci anni dopo, con l’elezione del presidente Julio César Méndez Montenegro, Asturias potrà non solo tornare nel suo paese, ma anche essere nominato ambasciatore in Francia, dopo aver ricevuto il Nobel. Rinuncia all’incarico nel 1970 ma resta a Parigi, dove sarà sepolto.



Da lì, appunto, dovrebbe essere rimpatriato. Ma l’operazione, come il Festival in Guatemala e la consegna al Cervantes, ha anche lo scopo esplicito di riscattare quello che viene considerato un oblio ingiusto. Come mai l’ispiratore del boom col boom fu dimenticato? Perché piuttosto che celebrare in “Cento anni di solitudine” una propria eredità, lo aveva preso di petto, e in un’intervista del 1971 aveva accusato García Márquez addirittura di plagio di un libro di Balzac del 1834, “La ricerca dell’assoluto”. Disse anche che “Cent’anni di solitudine” sarebbe stata un successo momentaneo. Indubbiamente un infortunio, pur motivato dal fatto che nel 1968 era stato García Márquez a dire in un’altra intervista che, prima che ad Asturias, il Nobel sarebbe spettato a Neruda e a Borges. Per tutta una generazione di scrittori divenne di moda prendersela col “vecchio sciocco barcollante”, “stupido”, “dispettoso” e “ignorante”: in termini freudiani, una vera e propria uccisione del padre. Comunque, ora che sono morti tutti sembra arrivato il momento per consegnare certe polemiche al passato. Sebbene non ci sia ancora una data precisa per il suo ritorno, il governo guatemalteco ha già indetto un concorso per artisti locali, che si occuperà di progettare il monumento funebre che ospiterà le ceneri di Asturias.

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