Rovine e mistero. Dalla Piramide Cestia a Piazza di Spagna, l’attrazione british per la Capitale è segnata dal “pittoresco” tra decadenza, suggestioni estetiche e distacco culturale da una città vista come inaccessibile e ambigua
Può apparire paradossale che a separare fisicamente quello che per lungo tempo venne conosciuto come Cimitero degli inglesi, ora Cimitero acattolico, e il quartiere più temuto e meno amato dagli inglesi, ovvero Trastevere, scorra una unica strada, un rettilineo che si dipana tra le spalle della Piramide Cestia e il Tevere, ovvero via Marmorata. I letterati britannici sciamati a Roma per abbeverarsi della grandezza storica e mitografica della città, dai romantici Shelley, Keats e Byron, arrivando poi a Robert Browning e Ruskin, in ogni epoca e tempo, si tennero a debita distanza dal popoloso rione di Trastevere, che godeva di una fama sinistra e di un clima malsano, a causa anche della vicinanza col Tevere. D’altronde gli unici che decisero di confrontarsi con le atmosfere di Trastevere, i francesi, non ne cavarono comunque una impressione letteraria molto diversa, tanto che il popoloso rione finì a ornare pagine noir dei fratelli Goncourt, nel romanzo “Madame Gervaisais”. E quando non si trattava di pagine romanzate, comunque pregne di quella forma delittuosa, erano i diari a rimandare il fetore di un’area che sia dal punto di vista igienico sia dal punto di vista urbanistico appariva agli occhi del visitatore straniero come ai nostri potrebbe apparire una favela: Hippolyte Taine arrivò a paventare la irrappresentabilità oggettiva di Trastevere, un caos assoluto, il cui unico aspetto rimandabile su carta erano le strade “orribili e fetide”.
Gli inglesi, per parte loro, preferirono inurbarsi in località più consone e come residenza scelsero quel triangolo centrale tra Piazza di Spagna, Piazza del Popolo e via Sistina che i romani non per caso iniziarono a definire “ghetto degli inglesi”. Più distaccati rispetto ai tedeschi e ai francesi nei loro giudizi, certo meno ingenui degli americani, gli inglesi vissero Roma inforcando le lenti del “pittoresco”, quello stile che come ha ricordato Mario Praz nelle monumentali pagine de “La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica” nacque proprio in Inghilterra a significare un decadente e gradevole disordine. Investigato e in certa misura preconizzato tra i primi da Edmund Burke, il pittoresco rappresentava uno stile ombroso, in cui paesaggio naturale e antiche rovine finivano simbolicamente per unirsi tra loro. Non può stupire, data questa premessa, il motivo per cui agli inglesi Roma, specie la Roma del tempo, dovette apparire una sublimazione perfezionata del canone. Proprio questa misteriosa consistenza, e Thackeray e George Eliot parleranno davvero di Roma come di un mistero non svelato, rese la Capitale una sorta di scatola chiusa, impenetrabile alla vera comprensione, esteticamente imponente ma meno suggestiva di una Firenze che gli inglesi notevolmente preferiranno alla Capitale.
La dimensione più intensamente “pittoresca” ci è rimandata dalle annotazioni di John Ruskin che della Capitale lascerà una descrizione simile a una tavolozza, in cui ogni aspetto risalta solo per il vivo e forte contrasto dei sentimenti suscitati e in cui persino ogni miseria si rende soggetto e oggetto di osservazione e di raffigurazione estetica. In effetti, fatta salva la parentesi romantica dei citati Shelley, Keats e Byron, i loro compatrioti di epoche successive saranno assai meno benevoli. E in parte a cementare questo controverso rapporto contribuirà lo stesso fattore religioso, il prisma scintillante in ogni Chiesa e in ogni cappella votiva di un cattolicesimo che per la sensibilità media dell’intellettuale inglese risultava urticante. In verità, gli stessi romantici nelle esplorazioni capitoline ci misero molto del loro, molta immaginazione, molta sovrastruttura, in questo simili ai successivi intellettuali americani che avrebbero immaginato una Roma onirica e metafisica diversa dal reale. Visitando il Colosseo, Shelley ne ricavò l’impressione di un luogo che era reso magnificente dal senso di rovina e di decadenza e in cui la oggettiva realtà dei ruderi era meno impressionante e meno affascinante del pensiero simbolico di ciò che esso era stato e di ciò che, secoli e secoli prima, aveva incarnato.