Intelligenza artificiale, criptovalute, e il cioccolato più famoso del mondo. Reportage
Ho visto il futuro, ed è climatizzato. Quanti gradi fanno oggi fuori, chiedo. “Ah, oggi fa fresco, solo 45, sir”, risponde l’autista mentre siamo imbottigliati nel traffico sotto i grattacieli tra le Rolls Royce, Lamborghini e Ferrari. Siamo ovviamente a Dubai, posto che mette in crisi i comuni sentimenti del vivere e dell’abitare, posto che cinquant’anni fa quasi non esisteva, “cattedrale nel deserto” per definizione, e che invece è molto appetibile e ricercato nel mondo d’oggi dove tutto è rimescolato e sottosopra.
La città-Stato sul Golfo persico vive un suo momento di splendore: Trump vi ha concluso il suo trionfale viaggio d’Arabia, segnato dal souvenir del nuovo Air Force One fiammante (regalato dai vicini del Qatar; come noi ci portiamo via le trousse dagli aerei Emirates, lui si porta via proprio l’aereo). Giorgia Meloni ha firmato un accordo mostruoso che prevede 40 miliardi di investimenti da parte degli Emirati nel nostro Paese (un pnrr del palmizio, un giubileo con la galabia). Siamo all’Arab Media Summit, il più grande raduno sui media del mondo arabo, patrocinato da Sheik Mohamed, il sovrano di Dubai, dove per l’esperimento del Foglio Ai veniamo trattati con tutti gli onori – e anche se il mio nome viene stampato sul sottopancia come Michel Massinari, peraltro mica male, nome da personaggio di Verdone, è la prima volta che un media italiano viene invitato a questa prestigiosa kermesse, dicono. Mi fanno molte feste, vivo i miei 15 minuti da star emiratina, intervistato anche alla Dubai Television dove una Lilli Gruber del Golfo mi interroga sui destini del giornalismo (e subito l’idea mitomaniaca: riciclarsi come conferenziere arabo, alla Renzi!).
Questo forum così rifinito, all’interno del Dubai World Trade Centre, è come un Salone del libro che ha vinto al Superenalotto: 8.000 ospiti, 300 speaker, decine di talk tutti in contemporanea ma tutti via auricolare, dunque un silent party rivestito di moquette candida, e nel fresco dell’aria condizionata, insomma una lounge aeroportuale di business class. Perché poi diciamolo, andare a Dubai in viaggio d’affari è come non uscire mai da una saletta Emirates. Ci entri – a scrocco, e quando mai ci ricapita! – a Fiumicino (ci sono solo ingegneri romani e manovalanze che vanno laggiù per i cantieri, e parlano di prezzi del cemento e dei sanitari, e un prete elegante, che beve champagne e legge il New York Times; chissà che storie).
Dalla lounge vieni sparato poi direttamente nella balena dell’A380, con le segregazioni tra prima-business e (sotto, distante, remota) economy; e poi vieni ri-sparato in un hotel del centro direzionale di Dubai, in un viaggio in cui virtualmente potresti non incontrare mai dei poveri (il povero sei tu), e non uscire mai appunto da quel contenitore di finta pelle, finta radica, fiori veri, ottoni, vetri fumé (tanto vetro fumé) che è l’estetica di Dubai. Tutto ovattato e moquettato, e nell’aria un profumo da stilista o arredatore che varia ma non ti lascia mai.
Qui a questo forum-lounge ci sono anche tante postazioni per bere caffè, mangiare snack, e soprattutto degustare l’immancabile cioccolato di Dubai, che è il grande simbolo dell’emirato degli ultimi anni. Sono barrette ripiene di pistacchio, e vendono talmente tanto che stanno causando una crisi di domanda del pistacchio a livello mondiale. Il cioccolato di Dubai è l’equivalente dolce della pizza di Chicago, sono barrettone altissime in cui dentro c’è poco cioccolato e molto altro, soprattutto appunto crema di pistacchio, o pasta fillo, o crema al tè verde, o la tahina, pasta di semi di sesamo tostati e macinati. La startup che l’ha inventato solo 4 anni fa si chiama Fix (“freakin’ incredible ‘xperience”) e si deve alla giovane anglo-egiziana (ma emiratina per elezione) Sarah Hamouda, ed è un simbolo del nuovo soft (è il caso di dirlo) power di Dubai. Ogni barretta è realizzata a mano, è dipinta in diversi colori, confezionata con simpatici giochi di parole tipo Esselunga (“Catch me if pecan”) e costa un botto (17 euro prezzo ufficiale, ma online può arrivare fino a 50), e grazie alla sua instagrammabilità è diventata un caso mondiale, spinta dagli influencer, vagheggiata su TikTok, tanto che in Inghilterra se ne possono comprare al massimo due barrette a testa, e a Milano è introvabile. La Lindt ha lanciato pure lei il suo cioccolato di Dubai, Aldi e Lidl ne hanno fatto il pezzotto, ma gli Emirati hanno fatto subito causa.
Tra le galabie candide e il botox di presentatrici tv libanesi, i tacchi a spillo delle signore elegantissime sotto i veli, le ciabattone di gomma di eminenti eccellenze e altezze reali, in questo forum parla pure il Grande Imam di al-Azhar, capo di tutti i sunniti del mondo, che ricorda affettuosamente Papa Francesco, e presenziano alcuni membri della famiglia reale di Dubai, gli Al-Maktoum, che vengono chiamati rispettosamente i “rulers”, cioè i gestori, di questo stranissimo luogo. Moderni feudatari, si dividono i compiti, qui ecco per esempio la principessa Latifa, presidente della Dubai Culture and Arts Authority, insomma la Giuli di Dubai, e il principe Ahmed che guida il Dubai Media Council. I rulers sono moderni sovrani che hanno studiato nelle migliori scuole del globo, hanno fisici atletici, usano l’iPhone, potrebbero vivere a Los Angeles come a Milano. Forse il titolo di sovrano non funziona neanche più, non rende, meglio Ceo, o direttore creativo di questo posto che tiene insieme tutto, religioni e conflitti, monarchia assoluta e internazionalità, comfort estremo in condizioni climatiche e ambientali estreme.
E soprattutto soldi. Non c’è solo il cioccolato, infatti: oggi Dubai è la patria di alcuni dei business più agognati e redditizi. Si va dalla ubiqua intelligenza artificiale alle criptovalute. Si è da poco concluso infatti il festival internazionale dell’Ai, con l’Ai Week, e l’accordo con Trump accolto qui col fasto di Hitler a Roma nel ‘38 non ha solo aspetti folkloristici (“Da uomo dell’immobiliare, posso dire che questi marmi sono semplicemente perfetti” ha detto nel suo imperial viaggio arabico). 1,4 trilioni di dollari di investimenti emiratini negli Usa, e tra i vari progetti, la costruzione di un campus dedicato all’intelligenza artificiale proprio negli Emirati a cui partecipano OpenAI, Oracle, Nvidia e Cisco Systems, una colossale novità rispetto all’èra Biden che prevedeva di tenere gelosamente l’Ai in America. In cambio gli Emirati si sono impegnati a disinvestire in Cina e a fornire all’America un botto di energia elettrica a basso prezzo, necessaria per far girare l’Ai. Per quanto riguarda le criptovalute, c’è stata la Crypto Week a maggio e a ottobre c’è Blockchain Life, e ad aprile Token Dubai (insomma, come le week di Milano).
Dubai da bere, rispetto anche ad Abu Dhabi, capitale federale degli Emirati, dove ci stanno i super ruler, la famiglia Al-Nahyan, ancora più ricca, col presidente Sheikh Mohamed bin Zayed Al-Nahyan. Abu Dhabi il petrolio ce l’ha ancora, Dubai l’ha finito da mo e si è riciclata. Ci sono la logistica e i trasporti (col colosso DB Ports, che controlla la maggior parte dei traffici del Golfo), c’è il turismo in colossale crescita e c’è soprattutto l’immobiliare. Dubai è infatti un unico cantiere, una specie di sogno da Zampetti o distopia Tecnocasa. Il logo di Emaar, l’immobiliare di Stato, è ovunque, l’immobiliare di stato ha registrato l’anno scorso un fatturato record di 65.4 miliardi di dirham emiratini (circa 18 miliardi di euro), con utili di 10 miliardi di dirham. Trecentomila nuove case verranno costruite di qui al 2029, ma non bastano mai. Chi ha comprato spesso non ci abita ma rivende perché i prezzi salgono tantissimo (del 75 per cento dal 2021 a oggi). Tanti hanno scelto comunque di viverci, perchè qui si guadagna bene e c’è tantissimo lavoro; magari sono in fuga dalla Russia sanzionata, o passati di qui durante il Covid (era uno dei pochi posti rimasti aperti, c’erano vaccini facili, ricordate quegli che andavano a vaccinarsi a Dubai? C’erano anche agenzie che organizzavano il pacchetto completo, volo, pernotto, Pfizer. Vaccino in business class. Qualcuno è rimasto).
Ah, e non ci sono tasse sui redditi, e l’Iva è al 5 per cento, il che ha attirato 6.700 milionari solo nel 2024, la più grande migrazione di ricchi della storia. Terra ghiotta di record: naturalmente il grattacielo più alto del mondo, il Burj Kalifa, che sembra il disegno del grattacielo dei sogni di Frank Loyd Wright, e svetta coi suoi 829 metri, ma presto si avrà il secondo più alto del mondo (il Burj Azizi) e poi il Burj Al-Arab, la celebre vela azzurra – al terzo burj il cronista Michel Massinari cominciò a sospettare che burj in arabo significhi grattacielo. E poi l’isola a forma di palma, e infiniti palazzoni che sorgono senza tregua: palazzi coi nomi di stilisti e di macchine, come a Miami. Ecco, quasi pronto, un Bugatti Building, “Inspired by hypercars, designed for the elite”, costruito dalla ditta Binghatti. Oltre al Binghatti-Bugatti, i grattacieli di Dubai sono simili a quelli di una metropoli americana, ambiziosi ma un po’ cheap, mancano infatti le grandi firme – per quelle c’è Abu Dhabi, con l’isola di Sa’diyyat che ospita i nuovi musei, il Louvre e il Guggenheim, ne parleremo nel prossimo Terrazzo, sul Foglio di martedì.
Vista dal trentasettesimo piano dell’hotel (mi avevano dato il 19esimo, ma poi mi mandano più su, l’upgrade qui è letterale, l’altezza è tutta bellezza. Dopo un po’ anche le vertigini vanno a farsi benedire) la “strip” di Dubai, un tempo stradicciola in mezzo al nulla, sembra quella di Las Vegas, in mezzo a un polveroso nulla grigio non spiacevole, e senza casinò. E invece con le spiagge. Che a causa delle temperature micidiali del giorno sono aperte e consigliate di notte. Le spiagge notturne nei quartieri di Jumeira 2 e 3, lussuose aree turistiche, hanno attratto infatti la cifra record di 1,5 milioni di visitatori l’anno scorso. La notte è anche l’unico momento in cui puoi camminare più di cinque minuti all’aria aperta, e non nei cunicoli dotati di aria condizionata: e anche di notte, vedi operai sulle gru, che costruiscono senza tregua, come mi fa notare la mia guida, Benedetta Paravia, emiratina adottiva, non a caso della dinastia ascensoristica, che guida il festival “La dolce via” tra Italia e Dubai. Chi ci abiterà in questi grattacieloni? Saranno vuoti comprati per investimento come quelli di New York? No, no, ci abitano, e appunto la sera vagando per ristoranti che sembrano tutti di centri commerciali, tra un Nobu e un Cipriani, mentre russe poppute girano in gruppi compatti come gli sciami di riders (tutti indiani) che vanno a ricaricare i cibi negli “hub” per poi portarli – poracci – a domicilio sui motorini, c’è tutta una gioventù internazionale in giro che non sono solo milionari. Francesi e inglesi giovani che ti dicono tutti che si sta benissimo, forse in fuga da città incasinate e lerce e in crisi democratica come le nostre, e pure surriscaldate. Allora, come dire: tanto vale fare il salto della quaglia, e puntare sulla demokratura dotata di aria condizionata.
Qui non abitano solo avventurieri, faccendieri – con gli Emirati non c’è estradizione – ma tutta una nuova classe di lavoratori della finanza, delle costruzioni, dei commerci, e magari tanti semplicemente scocciati dal logorìo del mondo moderno. Perché alla fine sì la democrazia, ma la vera libertà poi qual è? Votare (sempre meno) in libere elezioni, pagando in minoranze ancora più esigue il 60 per cento di tasse per abitare tra l’immondizia e l’ospedale che crolla? Insomma, ci si fa un pensiero: diventeremo tutti emiratini? Aspettare che i diritti si restringano qui o andare là già ristretti (omosessualità bandita, ma tollerata)? Vedremo come se la cava la dinastia degli Al-Meloni. Dubai, alla fine, è più vivibile di tante nostre città, pensate a Venezia. Stessi negozi monomarca, e almeno nei vicoli non allignano i pickpockets e c’è l’aria condizionata. Le temperature all’esterno non sono poi molto differenti (ma Venezia è più umida). Certo, direte, quelli sono ricchi, ma con stipendi esentasse lo saremmo un po’ tutti.
Nello Stato coi più alti Btu al mondo, almeno nel centro, come non c’è distinzione tra giorno e notte, non ce n’è tra spazi pubblici e privati. Si può praticamente non uscire mai dall’albergo – lounge infinito, camminando o ciondolando nella rete di cunicoli climatizzati e rifiniti: esci dalla spa dell’hotel e ti ritrovi dentro il Museo del Futuro, un enorme fagiolone argenteo, e in mezzo trovi banche, caffetterie, sartorie, fiorai, palestre, tutto aperto e senza vetrine o porte perché si sa che rubare è fuori discussione. Dopo un po’ diventa un gioco lasciare bagagli e preziosi unattended il più possibile. Chissà se Gianni Boncompagni venne mai a Dubai: appassionato com’era di centri commerciali, possessore di un appartamento dentro uno di questi, qui avrebbe realizzato il suo sogno.
Nessuno conosce comunque bene la geografia di questi tunnel-serre. Forse perché tutti vogliono andare in auto, per le alte temperature ma anche perché l’auto è sempre uno status, come a Roma (qui ci sono anche le famose targhe a pagamento, se vuoi la numerazione ganza te la compri a delle aste speciali: il record due anni fa, per “P7”, 15 milioni di dollari. Più corta è, più costa, la targa, e gli appassionati mettono lettere e numeri che ricordano anniversari, iniziali, nomi in codice). Ma in realtà almeno in centro arrivi quasi dappertutto a piedi, via cunicolo. Anche all’enorme Dubai Mall, il più grande – naturalmente – del mondo, con 1.200 negozi, collegato al Burj Kalifa e a tutto il resto; ci sono dei taxi-golf car, che, più utili dentro che fuori, ti trasportano da una parte all’altra del colossale centro commerciale, lindo, candido, una specie di Apple store moltiplicato per mille, tranne che, a una certa, parte il canto del muezzin. Ma che importa, uno degli articoli più venduti (a parte il cioccolato di Dubai) qui sono le cuffie anti rumore, negli stand di Apple, Samsung, Sony, Huawei. Poi si prosegue per i cunicoli: a ogni angolo c’è un desk, con dei gentili signori o signore pronti a indicarti la strada, in perfetto inglese, dandoti del “sir”. Di nuovo, dipendenti pubblici o privati? Saranno spie? Sembra un film di Lubitsch o quelle commedie sui grandi alberghi internazionali dei telefoni bianchi.
Nell’emirato-lounge, il controllo securitario pare sia totale. WhatsApp lo usano tutti, ma le telefonate sono disabilitate. Tutti, proprio tutti, pagano poi un servizio vpn, cioè quel sistema che consente di schermarti e non farti rintracciare risalendo al tuo indirizzo Internet. La polizia ha una app efficientissima con cui puoi segnalare in tempo reale reati e incidenti. Basta che il reato non sia tu. In quel caso è un attimo che scatta il “travel ban”, cioè il divieto di espatrio, in quel caso, dalla lounge non esci finché non lo decide il ruler.
Una che ha violato il travel ban è stata la principessa Haya, una delle cinque mogli di Sheik Mohammed, che nel 2019 fu protagonista di un’altra storia da film. Fuggì infatti all’estero, rifugiandosi per sempre in Gran Bretagna, dicendo che si sentiva in pericolo per la sua vita, che il “ruler” aveva già fatto sequestrare le sue figlie, che era un abuser oltre che un ruler, insomma non ne poteva più della vita dorata a corte, una specie di Lady Diana al contrario (quella era inglese e trovava ristoro dagli arabi, questa è araba ed è fuggita a Londra). La principessa poi era assistita dalla stessa avvocata che Diana utilizzò contro Carlo. A nulla è valso il potere degli Al-Maktoum. Che anzi sono stati condannati, coi più costosi alimenti della storia, oltre mezzo miliardo di sterline. L’esempio è stato seguito da un’altra principessa, una dei 23 figli di Sheik Mohammed, Mahra, sceicca-influencer che con un post su Instagram l’anno scorso ha accusato il marito di cornificarla, e gli ha detto tre volte “basta, io divorzio da te”, con citazione della formula con cui la sharia permette al marito di ripudiare la moglie (erano troppi anche in quel matrimonio).
Insomma, qualcosa sta cambiando, e del resto Dubai è il più moderno e tollerante dei sette emirati che nel ‘71 si fusero dando vita agli United Arab Emirates (il più “vintage” è quello che si chiama proprio Sharjah, che ha meno soldi, meno grattacieli, meno libertà, però un ruler scrittore e docente di letteratura, e una Triennale di Architettura very cool). A Dubai ovviamente non esiste stampa libera, ma anche i giornali autorizzati non è che vengano letti molto, si scrolla soprattutto Instagram (di nuovo, trova le differenze). Non ci sono homeless, appunto zero criminalità, il problema principale è il traffico, vedi Johnny Stecchino: nelle ore di punta meglio non uscire perché rimani bloccato nel micidiale ingorgo in entrata (la mattina) e in uscita (la sera) con semafori di snervante lentezza, come a Roma sulla Cristoforo Colombo (ma qui tra Rolls e Bentley).
Per chi vuole c’è la metropolitana, una specie di serpentone tutto esterno e sopraelevato che corre tra i grattacieli, ogni tanto sprofonda in collinette artificiali perfettamente rigogliose nonostante il caldo torrido, e incrocia alcuni dei tunnel. La prendo, tutto è efficiente e luccicante e ricorda la nuova fermata A di Piazza di Spagna (più emiratina di quella di Dubai); ma è meno bella di quella di Brescia; e non si può pagare “tappando” la carta come a Milano e Roma. Ci sono i vagoni di prima (“Gold”) e seconda classe (“Silver”), quelli per gli uomini e quelli per le donne. Nei piccoli e rari collegamenti esterni tra una metro e un tunnel fa talmente caldo che è quasi da ridere, è come un’ubriacatura istantanea. Non rischi di scottarti però, perché l’ombra dei grattacieli è talmente ampia e variegata che ti protegge. Quella del Burj Kalifa si allunga fino a tre chilometri. A un’ora di macchina c’è invece Abu Dhabi. Se si volesse tentare un paragone, Dubai è Milano, più tollerante e internazionale, e anche cafona, e Abu Dhabi è una Roma più ricca. Fuori dal centro di Dubai, via dai grattacieli, infinite distese di cliniche della bellezza, “botox meno 30 per cento”; e asili internazionali, e ville di ogni genere e stile (palladiano, Bauhaus) tutte con garage a vetri, non fumé, per far vedere bene le supercar ai passanti. Negozi Jacuzzi e Natuzzi. Anche, parecchi cinema, in palazzoni multiplex come a Los Angeles. E perfino qualche clinica psichiatrica. Chi mai ci finirà, in clinica psichiatrica a Dubai? Solo il ruler lo sa.