Logorroico come Chávez, insulta i giornalisti e gli oppositori come Castro, messianico come Perón. Ha fatto riforme necessarie per l’economia argentina, ma il Loco è un populista illiberale e autoriario
Quel che mi capitò con gli amici socialisti quando s’innamorarono di Hugo Chávez, mi capita oggi con quelli liberali estasiati da Javier Milei. Ma non vedete, dicevo allora, ripeto oggi? Ogni volta che l’America Latina assurge a “laboratorio politico”, allaccio la cintura e mi preparo allo schianto. Valeva a sinistra, ora a destra. Cosa cerca laggiù? La gente “non odia abbastanza i giornalisti”, dice Milei. Sono “schifosi”, “infradotati”, “merdacce”. Intimidazione? Macché: diritto di risposta, spiegano i lacchè, contro le critiche, insulti. Non è una censura, ma provate a scrivere sereni in tali condizioni, coi troll “libertari” che vi additano all’odio sulle reti sociali! Ora li chiama “mandrilli”. Animalizzare i nemici è poco originale: per Fidel Castro erano “gusanos”, vermi. Non è un bel segnale.
I giornalisti non sono vacche sacre. Io stesso ne ho maltrattato qualcuno: se lo meritava. Ma in privato! E non sono presidente di nulla! Guarda caso, è raro che Milei prenda di mira chi resse il moccolo ai Kirchner e alle loro ciclopiche corruttele. Ce l’ha con chi le svelò, coi migliori giornalisti argentini, con coloro che, fatti alla mano, gli fanno le pulci. E’ il loro mestiere! E se un giorno un fanatico ne tradurrà le parole in fatti? L’odio in sangue?
Tant’è: poiché la stampa critica, Milei passa minaccioso alle denunce: in pubblico e in tribunale. Parla per ore alla tivù. Appena può si fa propaganda a reti unificate. Ricorda Chávez. Ai giornali ha tagliato le sovvenzioni pubbliche. Ma i più fedeli attingono, secondo seri indizi, ai fondi riservati della presidenza. Risultato: in un anno l’Argentina ha perso 47 posizioni nel ranking di Reporters sans Frontières sulla libertà di stampa nel mondo. Comunisti? Sono gli stessi che denunciano Venezuela e Nicaragua, Russia e Cina. La Libertà Avanza, si chiama il partito di Milei: la libertà di pensare come lui.
La sua insofferenza alla critica è patologica, puerile. I suoi sfoghi isterici patetici, da valium. La democrazia, non lo nasconde, non gli importa. A chi glielo chiede, risponde evasivo. L’universo di Milei comincia e finisce con la macroeconomia. Non ha altro spartito. Mi suona un po’ arido, ma de gustibus. A convinzioni morali è ballerino, a slanci ideali sbarazzino. Annunciò un mercato degli organi: cestinato, per fortuna. Era indifferente all’aborto, ora è un feroce antiabortista. I gay: da simpatetico ad antipatetico. Papa Francesco: era “il maligno”, ora un Beato. I “wokers”? ignorati nel 2024, un’ossessione nel 2025. Chiuderò la Banca Centrale! L’usa come cosa sua. Bando al Fondo monetario! Gli è corso incontro col cappello in mano. Viva Zelensky! Prima di Trump… E’ convinto che gli daranno il Nobel. Glielo auguro. Per ora ha tirato bidoni con le criptomonete. Ciliegina sulla torta, è un plagiatore seriale: plagi lunghi e documentati. Sarà il caso di cucirgli addosso la fama di fine intellettuale? I suoi intellettuali organici sono soldati della “battaglia culturale”. Contro chi? Gli “zurdos de mierda”. Chi sono? Tutti, meno i “libertari”. Sono giovani ma parlano come vecchi nazionalisti: Dio, Patria e famiglia. I nazionalisti di un paese, diceva Giovanni Sartori, che non ha mai sconfitto il fascismo, mai digerito democrazia e laicità perché “estranei all’identità nazionale”.
Su questo, almeno su questo, aveva ragione Perón: socialisti o liberali, conservatori o radicali, gli argentini sono tutti peronisti. Il peronismo è “il movimento nazionale”, la religione della patria, la fede del popolo. Milei non fa eccezione: messianico e assolutista, è un peronista culturale, vuole imporre a tutti la sua fede. Questo è il segreto del suo successo, non certo Hayek o Rothbard. I peronisti non sono mai suo bersaglio. E peronista è il suo Nume, Carlos Menem, l’inventore del “liberalismo” à la peronista, un ossimoro.
Cosa fu? Capitalismo “di amici” e poteri concentrati, moralismo e corruzione, niente inflazione ma tanta disoccupazione, carisma personale e devastazione istituzionale. Durò un po’, poi tutto esplose: tornò in sella il peronismo “progressista”, il gemello diverso. Stavolta sarà diverso, dicono. Auguri. Ma la ricetta è quella. Come Menem, più di Menem, Milei governa a calci nel sedere e sputi negli occhi. Abusa di decreti e vomita insulti sul Parlamento. Voleva piazzare un giudice amico alla Corte Suprema, il re degli insabbiatori: non c’è riuscito, ma tornerà alla carica. La motosierra ha potato tutto, rami secchi e rami fioriti. Ma non la Side, i servizi segreti, colmati di denaro. Dati i trascorsi, capisco chi ne teme l’uso.
Nemico della “casta”, Milei si fabbrica la sua. L’architetta è la sorella Karina: da lettrice di tarocchi a segretaria della presidenza. Ogni Perón ha la sua Evita, in Argentina: potente e misteriosa. E un “Monaco Nero”, Santiago Caputo, il Mago del Cremlino, burattinaio delle Reti Sociali. Dietro di loro un codazzo di amici, amanti e parenti, più fedeli che competenti, oggi ci sono domani chissà: quante teste tagliate nei ministeri, che girandola di funzionari, che caos!
L’Argentina avanza così di Profeta in Profeta, di Apocalissi in Redenzioni, di illusioni in tracolli. Poiché il fine è l’Età d’Oro, ogni mezzo è giustificato. Chi perdonava tutto alla Kirchner non ne perdona una a Milei. Chi perdona tutto a Milei non perdonava nulla alla Kirchner. Entrambi odiano il Centro, la destra moderata e la sinistra riformista, l’unica oasi non peronista. Milei non lo nasconde: vuole spazzarlo via. Scava la fossa all’ex presidente Mauricio Macri, gli divide il partito e ne fagocita i pezzi. Pur di strappargli il governo della Capitale era disposto a lasciarla ai peronisti. Odia e insulta i liberali di lungo corso, gente per bene in trincea da una vita. Gli conviene avere contro Cristina Kirchner, odiata da mezzo paese. Come alla Kirchner conviene avere contro Milei, così inviso ai suoi da farle sognare la riscossa. Si capisce che Milei l’abbia salvata dal divieto, da condannata, di candidarsi. Gli opposti spesso si assomigliano e attraggono: stesso cinismo, stessa prepotenza, stesse turbe emotive.
Non è che io non capisca gli estimatori. Milei ha fatto grandi progressi contro l’inflazione, ridato ossigeno al sistema creditizio, raggiunto il superavit fiscale, traghettato il paese fuori dal controllo dei cambi. Le deregolamentazioni del ministro Federico Sturzenegger sono sacrosante. Ma il “miracolo economico” è propaganda for export. Sarà che ai miracoli non credo, che dietro a un miracolo sospetto il trucco, che in Argentina ne ho visti sfumare tanti: l’inflazione non è ancora domata, la crescita lenta, la disoccupazione persistente. Il paese è diventato carissimo, i salari rimangono bassissimi. Il costo grava su pensionati e ceti medi, non proprio la “casta”. Seppur lo neghi, l’ultimo e precipitoso viaggio di Milei a Mar-a-Lago era una supplica a Trump. Esaudita: il Fondo monetario ha sbloccato in fretta e furia il credito necessario a puntellare il suo traballante piano economico. L’“ordine spontaneo” dev’essere ancora lontano in fondo al tunnel se il suo ministro dell’Economia minaccia sanzioni ai “formatori di prezzi”, se sulle esportazioni di cereali gravano pesanti imposte.
Ma lasciamo perdere la liberalizzazione economica, i suoi limiti e le sue distorsioni. Snellire lo Stato patrimonialista e corporativo del retaggio peronista è urgente e doveroso. Anche se noto che colui che da bambino stizzito disse di volerlo distruggere, da bambino goloso ne abusa: è il suo giocattolo, ci fa quel che gli pare. Il punto è: il liberalismo economico implica il sacrificio del liberalismo politico? Reclama odio, prevaricazione, intolleranza? La distruzione d’ogni avversario? Per me no. Per Milei sì. I suoi intellettuali ammirano Pinochet, il mileismo s’atteggia a pinochetismo civile.
Nulla di nuovo, ahimé. La storia argentina oscilla da un secolo tra populismo antiliberale e “liberalismo” autoritario. Evoca il “comando impossibile” dell’Italia liberale così ben studiato da Raffaele Romanelli. Il declino economico è la febbre, ma la malattia è l’autoritarismo, il dogmatismo, il messianismo. E’ il populismo sistemico: la pretesa di imporre la propria verità a verità di tutti, di elevare il proprio popolo a tutto il popolo. Milei come altri prima di lui attacca la febbre aggravando la malattia, nutre invece di estirpare la vecchia pianta populista. Finito il suo ciclo, è facile che il pendolo torni all’estremo opposto.
Alcuni plaudono con bizantini distinguo: Milei è populista nei mezzi ma liberale nella sostanza, è giunta l’ora di immolare la forma sull’altare del contenuto. Sanata l’economia, si sistemeranno le istituzioni. Pia illusione, alibi d’ogni “rivoluzione”, anticamera d’ogni abuso, nutrimento d’ogni Termidoro. I fini saranno coerenti coi mezzi impiegati per raggiungerli. In democrazia come nella vita, la forma è sostanza. Non ci sono scorciatoie.
Il caso Milei non meriterebbe attenzione né agitazione se non ingrossasse l’onda su cui s’accalcano ogni giorno nuovi surfisti: da Trump a Vox, da Orban a Bukele, dall’Afd al lepenismo, tutti diversi, tutti di famiglia, tutti amici di Milei. Meloni inclusa. Quel che li unisce non è la libertà economica, mero accessorio, usato o scartato a seconda. E’ il conservatorismo morale, il nazionalismo identitario, l’escatologismo religioso. Del liberalismo gl’importa, quando gl’importa, il mercato. Non il governo limitato, non la legittimazione tra avversari, non il pluralismo. Come tali, sono i volti nuovi di un animale politico antico, formano una tribù unita da slogan, riti, premi, club e testi sacri. Tribù opposta ma speculare a quella che combatte. Vogliono l’America grande, l’Argentina potenza, la Germania omogenea, l’Europa romana, l’Ungheria cristiana. L’Occidente che invocano è nazionale e popolare, non laico né liberale. Quando il rimedio è peggio del male…