Approvata in via definitiva la legge in materia di reati contro gli animali. “Fine dell’impunità”, esulta la maggioranza. Ma i reati già esistevano: vengono soltanto innalzate le pene previste. E non mancano norme dagli effetti paradossali
“Riforma storica”, “grandissima vittoria”, “rivoluzione copernicana”. Con queste parole i parlamentari della maggioranza hanno salutato l’approvazione definitiva in Senato del disegno di legge in materia di reati contro gli animali, a prima firma di Michela Vittoria Brambilla, deputata di Noi moderati. “Fine dell’impunità che ha regnato per anni”, ha detto Brambilla. Lo stesso il leader del suo partito, Maurizio Lupi: “Questa legge pone fine all’impunità per chi uccide o sevizia gli animali, di chi ne fa oggetto di traffico o di combattimenti clandestini, restituendo così valore a legalità e civiltà”. Di quale impunità parlino Brambilla e colleghi non è dato sapersi. Già oggi il nostro ordinamento prevede precise punizioni per chi ammazza o maltratta un animale. A ben vedere, la “legge Brambilla” non fa altro che aumentare le pene previste da reati già esistenti, secondo la prassi populista seguita dalla maggioranza di centrodestra, che fin dalla nascita del governo Meloni usa il diritto penale come strumento di marketing elettorale su qualsiasi tema (dal rave party al femminicidio).
Il reato di uccisione di animali “per crudeltà o senza necessità”? Già esiste (art. 544-bis del codice penale): la pena prevista è la reclusione da quattro mesi a due anni. La riforma la innalza da sei mesi a tre anni, e fino a quattro anni se il fatto è commesso adoperando sevizie o prolungando volutamente le sofferenze dell’animale. Il reato di maltrattamento di animali? Anche questo già esiste (art. 544-ter): la pena prevista è la reclusione da tre a diciotto mesi. La riforma la innalza da sei mesi a due anni. Lo stesso vale per il reato di spettacoli o manifestazioni che comportano sevizie per gli animali, per il reato di combattimenti tra animali, per il reato di traffico illecito di animali da compagnia, per l’abbandono di animali. Tutti reati già previsti, di cui la legge “epocale” approvata in Parlamento non fa altro che aumentare le pene previste. Nella convinzione che l’innalzamento di uno o due anni della pena minacciata avrà un effetto deterrente che spingerà i cittadini a non compiere più condotte così odiose. Mera illusione, come dimostra la storia.
L’unica vera novità della riforma approvata è la ridenominazione della rubrica del codice penale che contiene i suddetti reati (da “delitti contro il sentimento per gli animali” a “delitti contro gli animali”), con il riconoscimento quindi degli animali come vittime dirette dei reati. Una grande conquista secondo i promotori della legge, che però in realtà rischia di creare conseguenze paradossali.
Come noto, infatti, i reati in questione non riguardano determinate tipologie di animali, come animali da compagnia o domestici. Se si riconosce soggettività giuridica agli animali, svincolando i reati da qualsiasi riferimento al “sentimento” provato dall’uomo per essi, si potrebbe arrivare a riconoscere come reato di uccisione di animali anche l’abbattimento per puro divertimento (“senza necessità”) di una colonia di formiche o di un mucchio di zanzare. Tanto vale mettere al bando repellenti e zampironi. Si scherza ma lo scenario, per quanto folle, è assolutamente compatibile con il nuovo assetto normativo. Risultato: per l’ennesima volta la politica consegna una delega in bianco al giudice. Sarà lui a decidere quali animali e quali condotte rientrano nella nuova disciplina.
“Nessuno nega l’importanza di tutelare gli animali da qualsiasi forma di violenza, ma la legge approvata dal Parlamento si limita in sostanza a innalzare le pene di reati già previsti dal codice penale. Siamo di fronte all’ennesimo uso simbolico del diritto penale”, dice al Foglio Vittorio Manes, docente di Diritto penale all’università di Bologna. “La domanda che dovremmo porci è: ma veramente deve essere il diritto penale a occuparsi di queste cose? Ancora una volta la politica affida al diritto penale compiti di pedagogia morale e culturale che invece dovrebbero essere attribuiti a politiche sociali e culturali”.