Musk non ha mai amato i dazi e si è scontrato con il mondo Maga sui visti. Ha patito molto le accuse e le campagne contro di lui in particolare per i tagli all’amministrazione pubblica fatti dal Doge, che peraltro non hanno contribuito granché alla riduzione degli sprechi. Trump non lo ha aiutato come lui pensava
Elon Musk ha lasciato il suo incarico al governo, nel dipartimento (finto) per l’Efficienza, il Doge, come “dipendente speciale”, cosa che gli ha permesso di non dover fare nessuna dichiarazione dei redditi e di eventuali conflitti di interesse, ma che gli consente di lavorare per il governo soltanto 130 giorni su 365 ogni anno. Il giorno prima dell’annuncio della dipartita, Musk aveva criticato il “big beautiful bill” cui il suo capo, Donald Trump, tiene tanto. “Sono rimasto deluso – ha detto in un’intervista a Cbs News – dalle spese ingenti previste da questa legge, che aumentano il deficit, non lo riducono, e sviliscono il lavoro che il team del Doge sta facendo”. Ecco, ha detto qualcuno, ha litigato con Trump, e ora cominceranno recriminazioni e vendette.
Al momento non ci sono indizi per credere che una lite ci sia stata: si sa che Musk ha litigato urlando con il segretario di stato Marco Rubio ed è quasi venuto alle mani con il segretario al Tesoro Steve Bessent, ma con il presidente – che ha scorrazzato un figlioletto di Musk sull’aereo presidenziale più dei suoi nipoti – non sono state rivelate discussioni. Non possiamo saperlo, naturalmente, ma sappiamo quattro cose: che Musk non ha mai amato i dazi e che si è scontrato con il mondo Maga sui visti per i lavoratori di talento (era gennaio, allora Trump si schierò con lui, oggi chissà); che Musk pensa – lo ha detto – di essersi già dedicato fin troppo alla politica, e di aver speso abbastanza; che Tesla ha perso il 71 per cento in profitti e che le vendite si sono ridotte di percentuali a doppia cifra; che ha patito molto le accuse e le campagne contro di lui in particolare per i tagli all’amministrazione pubblica fatti dal Doge, che peraltro non hanno contribuito granché alla riduzione degli sprechi (come scrive Joe Nocera su Free Press, per aggiustare lo stato bisogna sapere come funziona, e Musk non lo sa). C’è anche un’altra cosa che sappiamo – grazie a uno scoop del Wall Street Journal – ed è che su uno dei dossier cui Musk tiene di più, l’intelligenza artificiale, Trump non lo ha aiutato come lui pensava (e diceva) che avrebbe fatto. Il “nemico” Sam Altman di OpenAI ha ottenuto, assieme ad altre aziende tech, un accordo per costruire uno dei più grandi data center di intelligenza artificiale al mondo, ad Abu Dhabi. Musk aveva fatto di tutto per far deragliare questo accordo (si è anche unito al tour mediorientale di Trump, quando ha sentito che c’era Altman) e ha anche detto che il presidente non avrebbe mai dato il suo assenso se non fosse stata aggiunta al gruppo la sua società xAI. Invece l’Amministrazione Trump, pur ascoltando le lamentele di Musk, facendo una seconda revisione dell’accordo e posticipandone l’annuncio, è andata avanti.
Al di là dei rapporti personali, quindi, quest’alleanza con Trump e l’impiego al Doge non si sono rivelati poi così utili per Musk. In più c’è stato anche uno smacco politico, con la sconfitta nella dispendiosissima (per Musk) campagna elettorale per l’elezione di un giudice della Corte suprema del Wisconsin. A differenza del presidente, l’uomo più ricco del mondo è un imprenditore di successo e il suo investimento – mezzo ideologico e mezzo utilitaristico – nel trumpismo non si è rivelato affatto redditizio. Ed è forse per questo che vuole tornare a occuparsi delle sue aziende, e delle sue scaramucce. L’ultima: il fondatore dell’app russa Telegram, Pavel Durov, ha annunciato su X un accordo di integrazione sull’intelligenza artificiale per le due piattaforme per un anno. Musk gli ha risposto secco, sempre su X: “Non è stato firmato nessun accordo”.