La sfida tra Pechino e Washington per il controllo della ricerca

Trump vuole un’America meno competitiva anche sulla ricerca. La Cina non aspettava altro

Due giorni fa i giornali cinesi di Partito avevano tutti in prima pagina una lettera inviata dal leader della Repubblica popolare Xi Jinping all’Università Fudan di Shanghai in occasione del 120esimo anniversario della sua fondazione. Per un caso forse poco fortuito, la celebrazione di uno degli atenei più importanti della Cina ha coinciso con la guerra dichiarata dal presidente americano Donald Trump alle università di élite, compresa Harvard, e agli studenti internazionali iscritti alle università americane.

Gli effetti delle politiche di Trump sono già visibili, non solo per gli studenti e per gli atenei, che dovranno fare a meno delle rette pagate dagli studenti internazionali, ma per l’ambiente ostile che la Casa Bianca rischia di costruire nella ricerca americana. Due giorni fa è stata ufficializzata una notizia emblematica: una superstar delle neuroscienze americane, Dan Yang, che da 35 anni viveva e lavorava nelle migliori accademie americane e dal 2018 era membro dell’Accademia nazionale delle scienze di Washington, se ne torna in Cina, alla Shenzhen Medical Academy of Research and Translation. I tagli, le minacce e i sospetti hanno dato il via a un esodo, silenzioso ma cruciale nella ricerca scientifica made in Usa che riguarda tutto l’occidente.

A metà maggio, quando la direzione della Casa Bianca contro le università d’élite sembrava già chiara, Pechino ha lanciato un programma per invogliare i ricercatori di origine cinese a tornare in Cina. “Ho sentito parlare di offerte che si avvicinano ai 100.000 dollari all’anno per tre anni”, ha detto una fonte al South China Morning Post: praticamente il salario di un professore associato. Ci sta provando anche l’Europa, a diventare “calamita per i ricercatori internazionali”, come ha detto la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ma se l’offerta europea riguarda soprattutto la libertà accademica, la Cina vince la prova dell’attrattività per via dei fondi offerti e degli investimenti sulla ricerca. Corteggiare i ricercatori nati e cresciuti in Cina è naturalmente più facile. Qualche giorno fa Ren Yi, blogger economico molto famoso e influente e laureato ad Harvard, ha scritto sul suo blog Tuzhuxi ha scritto che “i cinesi trovano molto difficile comprendere il motivo per cui la Casa Bianca stia attaccando Harvard”, considerata l’importanza che la leadership di Pechino ripone sui suoi atenei nella costruzione della nuova Cina. E ha scritto anche: “Essere uno studente di Harvard e allo stesso tempo cinese è un doppio rischio”.

Sin dal suo arrivo alla leadership del Partito, Xi ha lentamente trasformato il sistema universitario cinese, rafforzando l’educazione ideologica e politica all’interno delle accademie, spesso costrette ad allontanarsi dagli standard internazionali per seguire un modello “con caratteristiche cinesi”, con meno corsi e richieste di competenze in lingua inglese e più attenzione al “pensiero di Xi” e a tutto ciò che riguarda la sicurezza nazionale. Le università, molte delle quali hanno contatti diretti con i ministeri della Difesa più importanti di Pechino, se non si conformano alle direttive ideologiche ricevono richiami ufficiali, come avvenuto nel 2021 all’Università Tsinghua e a quella di Pechino. Questo tipo di educazione conforme alla leadership del Partito comunista cinese si applica in maniera più sfumata agli studenti internazionali che studiano nelle università cinesi, che spesso partono per la Cina grazie al capillare lavoro di promozione nelle università occidentali, generose borse di studio e recenti incentivi come le agevolazioni sui visti-studio. D’altra parte, la priorità assoluta assegnata al Partito resta spesso poco comprensibile per molti ricercatori internazionali, che soprattutto in passato hanno sorvolato su certe dinamiche attratti dai cospicui investimenti che la Cina destina alla ricerca. Secondo un ricercatore italiano nel campo biomedicale, che preferisce restare anonimo, negli ultimi anni è cambiata molto la consapevolezza degli scienziati europei in ambito scientifico: “Chi va in Cina a fare un semestre sa di andare incontro a potenziali problemi: gli standard sono bassi, le pubblicazioni oscure, capita di finire in strane situazioni potenzialmente a rischio corruzione o spionaggio”. In più, spiega, una volta che si torna a casa il fatto di aver passato un periodo in Cina è ormai più uno stigma che un valore aggiunto.

Per gli scienziati cinesi, però, l’America è da tempo un luogo ostile. Già durante il suo primo mandato, Trump aveva intensificato il controllo sugli accademici, cinesi o naturalizzati, negli atenei americani. Nel 2018 aveva lanciato la “China Initiative”, un confuso programma della sicurezza interna che aveva l’obiettivo di indagare indiscriminatamente scienziati e ricercatori con legami con la Cina al fine di contrastare lo “spionaggio economico” e il “furto di proprietà intellettuale”. Il caso più famoso era stato anche il primo: Feng Franklin Tao, ingegnere chimico che nel 2019 il dipartimento di Giustizia aveva incriminato per “non aver dichiarato un conflitto di interessi con un’università cinese”, era stato cacciato dall’Università del Kansas dove lavorava, solo che poi cinque anni dopo era stato assolto da tutte le accuse.

Di più su questi argomenti:

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: “Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l’Asia”, “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.

Leave a comment

Your email address will not be published.