Le elezioni amministrative continuano a dimostrarsi terra ostile. Ma prepararsi giammai: ne riparliamo dopo i referendum, è la litania dal Veneto alla Campania. Il dibattito interno fra Lega, FdI e Forza Italia rischia di nuovo di costare caro
Più che un totonomi, è una ricerca al nome buono. E per il centrodestra, da nord a sud, la risposta verso le regionali è sempre la stessa: ne riparliamo poi. Dopo il congresso della Lega, dopo la Consulta – il verdetto sul terzo mandato –, dopo le comunali. Ora si dice dopo i referendum dell’8-9 giugno. A meno di farsi infatuare dal richiamo dell’estate: ve li vedete, Meloni, Salvini e Tajani a confabulare sui candidati governatori mentre in Parlamento già organizzano il piano vacanze? Eppure in autunno si vota. E la campagna elettorale di una coalizione che sul territorio ha già incassato serie batoste in serie – ultima venne Genova –, resta zoppa coma una squadra schierata in campo senza allenatore. Senza capopopolo. Ma a furia di cercare il nome ideale, si rischia di rimanere con l’idea in luogo del nome. Fino a quando, bubù-settete, ecco spuntare il Michetti di turno. Veneto, Campania e Puglia fanno gli scongiuri.
Il paradosso è che di tutte le regioni alle urne – tralasciando la Valle d’Aosta, capitolo a sé, e le Marche del governatore uscente Acquaroli –, l’unica senza discussioni sul nuovo candidato da presentare è quella in cui il centrodestra ha poco o nulla da perdere: la Toscana. Dove già da mesi è al lavoro dietro le quinte Alessandro Tomasi, il sindaco di Pistoia in quota FdI e tanto caro a Giorgia Meloni. Qui l’ultima volta ci aveva provato la leghista Ceccardi, non andando così lontana dal ribaltone in terra dem. “Adesso tocca a noi”, rivendicano i dirigenti vicini alla premier. Nulla osta da Forza Italia, soltanto qualche mugugno in casa Carroccio che più che altro varrà come merce di scambio per altri lidi. Anche perché, esclusa la Maremma della mina vagante Vannacci, a queste latitudini i salviniani sono come evaporati.
Il resto è caos. O stallo alla veneta, dove l’eredità di Zaia scotta ogni giorno di più. Su una cosa sono tutti d’accordo: non sarà un tecnico a raccogliere lo scranno del Doge. Dopodiché, ognuno fa da sé. La Lega converge compatta su Alberto Stefani, segretario regionale e vice di Salvini: non è l’unico profilo in ballo – aleggiano sempre Mario Conte, sindaco di Treviso, Elisa De Berti e Alberto Villanova, vicari di Zaia in giunta e in Consiglio – ma ormai è il più quotato. Il problema è che gli altri partiti non hanno ancora rinunciato all’idea (e in questo caso anche al nome). A partire dai meloniani: scalpita il coordinatore regionale De Carlo, si mette a disposizione anche il senatore Speranzon. Mentre i forzisti sparigliano le carte con l’agguerrito Flavio Tosi. E se c’è chi confida che la decisione definitiva sarà presa dal tavolo romano, la Lega per il Veneto è pronta a immolarsi a oltranza. Anche a costo di rompere la coalizione. Con Zaia che proprio in questi giorni ha vaticinato un’astuta profezia televisiva: “La maggioranza della regione sarà spartita in tre. A meno di non intercettare un elettorato più ampio, attorno a una lista civica”. Che ovviamente porterebbe il suo nome.
E al sud? Nave ancora più in alto mare. Nella Campania del post-De Luca circola ogni settimana un nuovo candidato papabile. A seconda di come tira il vento. O i sondaggi: i più recenti danno in vantaggio, almeno in termini di consenso, il viceministro degli Affari esteri Edmondo Cirielli (FdI). Ben distaccati tutti gli altri, compresa Mara Carfagna. Ma se i meloniani reclamano la regione in virtù del proprio peso alle urne, Forza Italia fa valere il suo ruolo storico sul territorio. E il fatto che se non sarà in Campania, il partito di Tajani non correrà da protagonista da nessun’altra parte. Si prospettano scintille. Mentre in Puglia è tutto l’opposto. Laggiù vige la tattica della lucertola: aspettare immobili al sole, fino a quando il centrosinistra farà la prima mossa. Auguri. Anche se intanto Tajani insiste sull’importanza di affidarsi a un civico. Foss’anche per mancanza di alternative – ma questo naturalmente non lo dice nessuno. Certo è che per tutto lo stivale si configura una panoramica da mal di testa. E a questo punto, forse, gli strateghi della destra vanno capiti: ne riparliamo dopo il referendum?