Non solo il ragionevole dubbio. Tutti i processi che mancano sul caso Garlasco: è tempo di separare le carriere tra magistrati e giornalisti
Si scrive Garlasco, si legge Italia. Sono passate ormai tre settimane da quando uno dei casi di cronaca nera più appassionanti degli ultimi anni è tornato alla ribalta per le ragioni che ormai sapete a memoria, nei dettagli, e probabilmente anche voi in queste ore, come il maestro Bruno Vespa, avrete tirato fuori dalla scatola dei vostri giocattoli il plastico di Garlasco. La storia è quella che conoscete. L’inchiesta sull’omicidio di Chiara Poggi è stata riaperta dopo il ritorno di fiamma dell’impronta numero 33, attribuita ad Andrea Sempio, amico del fratello della vittima. L’impronta si trovava vicino al cadavere, e potrebbe, con un condizionale grande così, contenere tracce di sangue. La difesa di Alberto Stasi, condannato nel 2015, da anni richiedeva nuove analisi proprio su questa impronta. Sempio è indagato per concorso in omicidio, non si è presentato a un interrogatorio e la sua difesa contesta la validità delle prove e denuncia una campagna mediatica contro di lui. I fatti, nudi e crudi, sono questi. Ma attorno a questi fatti c’è un elemento cruciale: il caso Garlasco ha appassionato l’Italia purtroppo per le ragioni sbagliate. Garlasco, da anni, appassiona l’Italia per questioni di voyeurismo, perché tutti con Garlasco, con quella foto di Chiara Poggi che buca lo schermo, con quegli occhi di Alberto Stasi che alimentano sospetti, si sono sentiti, magicamente, come parte di una fiction, ciascuno con il suo pensiero, il suo punto di vista, il suo retroscena, la sua verità storica. Garlasco, come capita spesso con i grandi casi di cronaca nera, e Garlasco in fondo è stato uno dei primi grandi processi mediatici della storia recente del nostro paese, è da anni il ritrovo perfetto di tutti gli avventori del bar sport Italia, che dopo aver cercato fortuna negli anni con lo sport, con il calcio, con la politica, con i vaccini, hanno con la cronaca nera un rifugio sicuro in cui poter sentenziare, in cui poter sentirsi protagonisti, in cui poter affermare la propria verità senza aver bisogno di controprove. A Garlasco, da sempre, vale tutto, vale tutto e il suo contrario, e dopo anni di silenzio il caso è diventato un fenomeno mediatico non tanto per ciò che rappresenta la vicenda giudiziaria nell’economia della giustizia italiana quanto per il fatto che i processi infiniti sono un business infinito e più ci si specializza su un caso più interesse di tutto il carrozzone mediatico vi è nello sperare che quel caso duri il più a lungo possibile: è il mercato, bellezza. Il caso Garlasco però, si diceva, in questi giorni ha fatto parlare per le ragioni sbagliate. Perché il caso Garlasco non è solo una storia di possibile malagiustizia ma è la fotografia dei vizi ricorrenti, li chiamiamo così perché ci sentiamo generosi, della giustizia italiana. Il primo punto, affrontato bene sul Foglio da Riccardo Ravera, uno dei carabinieri che arrestarono Toto Riina, è che la storia di Garlasco ci ricorda una verità che in pochi hanno voluto vedere in questi giorni. Ovverosia che “gli errori giudiziari stanno aumentando perché gli inquirenti partono da tesi precostituite, si innamorano delle proprie idee anziché vagliare tutte le ipotesi, e perché gli investigatori ormai si affidano soltanto alle tecnologie, tralasciando le indagini tradizionali”.
Nel caso specifico: la famosa impronta numero 33 è un’impronta vicino al cadavere mai identificata in fase di indagini preliminari e solo dopo anni si è scoperto che potrebbe essere quella di Andrea Sempio. Il secondo punto, anch’esso a lungo trascurato, è che il caso Garlasco mostra la totale assurdità di un sistema che può condannarti, come è stato il caso di Alberto Stasi, anche dopo due assoluzioni in primo e secondo grado, con uno svuotamento assoluto del principio del condannare oltre ogni ragionevole dubbio: si può essere assolti due volte e poi condannati in via definitiva, dunque, orrore assoluto, e come ha detto ieri il ministro Carlo Nordio comunque vada, finirà male, perché o il detenuto è innocente, e allora ha sofferto una pena atroce ingiustamente, o è colpevole e allora è l’attuale indagato a dover affrontare senza colpe un cimento doloroso, costoso in termini di immagine, di spese e di sofferenze. Il terzo punto riguarda la certezza che, comunque andranno le cose, comunque andrà il processo, se davvero dovesse esserci un’altra pista da seguire, tale da smontare quella seguita negli ultimi anni, non vi diciamo quanti per non farvi paura, nessuno pagherà per gli errori giudiziari, nessun consulente risponderà per gli eventuali errori commessi, nessun agente della polizia giudiziaria verrà richiamato all’ordine per gli eventuali errori commessi, nessuno tra coloro che hanno condotto le indagini pagherà dazio per gli eventuali errori commessi. Tutto normale, solo un incidente di percorso, che vuoi che sia, business as usual, signora mia. Il quarto punto, scandalosamente ignorato da molti dei garantisti all’amatriciana che si sono esercitati in questi anni su Garlasco, bravi a denunciare gli orrori della vicenda meno bravi a capire che Garlasco è il riflesso non di una mela velenosa ma di un albero marcio, quello della giustizia italiana, riguarda l’incapacità del sistema giudiziario di criticare se stesso: l’Anm, negli anni, lo avrete notato, ha scelto di commentare ogni errore della politica, errore dal suo punto di vista, arrivando a esondare dal suo ruolo, dalle sue competenze, e ci si chiede quando qualche esponente dell’Anm troverà il tempo di occuparsi non di quello che il potere legislativo vuole fare con il potere giudiziario ma quello che il potere giudiziario potrebbe fare per se stesso per non diventare lo specchio di un sistema irresponsabile e fuori controllo.
Il quinto punto riguarda il modo in cui la polizia giudiziaria è diventata, nell’indifferenza assoluta, il dominus delle indagini al punto da aver allontanato sempre di più il pubblico ministero da un dovere scritto nero su bianco all’articolo 358 c.p.p.: il pubblico ministero compie, direttamente o delega la polizia giudiziaria a compiere, ogni attività necessaria ai fini delle indagini, assicurando anche le investigazioni a favore della persona sottoposta alle indagini. Più la polizia giudiziaria conta in un’indagine, meno il magistrato è abituato a fare indagini tradizionali, e più la sua capacità di confutare anche le prove che vanno contro la sua tesi sarà ridotta. L’elemento più importante, però, riguarda un dramma italiano che ha a che fare con il modo perverso con cui nel nostro paese il processo mediatico ha ormai fagocitato il processo tradizionale. La spettacolarizzazione della giustizia e la mostrificazione di un indagato, rendono spesso difficile agli organi giudiziari tornare indietro, a meno di non voler sfidare il mostro del circo mediatico spesso creato da loro stessi, e dall’altra parte il rapporto stretto che esiste, a Garlasco ma non solo, tra organi inquirenti e giornalisti porta spesso ad alimentare un meccanismo di questo tipo: prima i giornali diffondono notizie riservate, poi la procura fa comunicati su quelle notizie, quindi i giornali riprendono il comunicato che riprende le notizie anticipate dai giornali, magari valorizzando bene il volto del magistrato in questione. Risultato: la presunzione di innocenza distrutta, il nuovo indagato diventa un pezzo della coreografia dei talk-show, il principio del ragionevole dubbio viene ancora una volta calpestato e gli innocentisti che hanno passato gli ultimi anni a denunciare la mostrificazione di Stasi si ritrovano a mostrificare a loro volta il nuovo arrivato per difendere colui che considerano essere stato ingiustamente condannato. Il caso Garlasco ha fatto notizia per molte ragioni. Ma forse non per quella principale: l’urgenza assoluta che ha l’Italia di separare, ancor prima delle carriere tra giudice e pm, quelle tra pubblico ministero e giornalista.