L’amministrazione americana stavolta non può prendersela con gli “Obama judges”. A far bloccare la misura trumpiana è stato un giurista che fa parte di una cultura non ostile all’area repubblicana, anzi tradizionalmente molto vicina. Dal punto di vista sia politico che giuridico
“The judicial coup is out of control”, ha commentato uno dei più stretti collaboratori di Donald Trump alla notizia della sentenza con cui la Court of International Trade ha “bloccato” l’imposizione dei dazi voluta dall’Amministrazione federale. Un altro episodio che si inserisce in un clima tesissimo tra politica e magistratura statunitensi, tra esercizio della discrezionalità che viene dal mandato elettorale e controllo di legalità che è imposto dal rule of law.
Stavolta, però, per l’amministrazione sarà più complicato prendersela con gli “Obama judges” e con la judicial philosophy di cui sono espressione. E non soltanto perché la corte ha deciso in una composizione di tre magistrati, due dei quali sono stati nominati da Reagan e dallo stesso Trump, ma perché il promotore del ricorso – Ilya Somin, che ha lavorato con il Liberty Justice Center – fa parte di una cultura non ostile, e anzi tradizionalmente molto vicina, all’area repubblicana: dal punto di vista sia politico, sia giuridico. Sul primo versante, facciamo riferimento a un liberalismo che invoca un ruolo dello stato meno intenso nella regolazione delle attività economiche, per lasciare maggior spazio al libero esercizio dell’iniziativa privata. Somin, giurista nato nella Russia sovietica ed emigrato all’età di cinque anni negli Stati Uniti, ha scritto difendendo le virtù di un sistema federale che consente alle persone di “votare con i piedi” e criticando quelle decisioni della Corte suprema che hanno allentato i limiti sull’esercizio del potere di espropriare la proprietà privata.
Ancor più rilevante, poi, è l’aspetto di vicinanza culturale di tipo giuridico. Somin fa infatti largo uso, nella propria attività accademica, degli argomenti originalisti e testualisti, in forza dei quali si afferma che il significato di una legge – per semplificare – non cambia col tempo, sicché l’interprete è tenuto a leggere le norme come avrebbe fatto un cittadino medio ragionevole al momento della loro entrata in vigore. Il giurista che più di tutti ha promosso questa idea è Antonin Scalia, giudice della Corte suprema per quasi trent’anni (1986-2016), nominato da Reagan e considerato un campione del cosiddetto judicial conservatism. Non per caso, una delle promesse che, nel 2016, aiutò l’outsider Trump (per diversi anni iscritto al partito democratico) a farsi accettare dall’elettorato repubblicano fu proprio quella di nominare giudici “sullo stampo di” (“in the mold of”) Scalia, ossia originalisti e testualisti.
Somin ha fondato il proprio ricorso su ragioni che Scalia ha articolato lungo tutta la sua carriera, e che possono essere essenzialmente sintetizzate nella centralità della separazione dei poteri. In un celebre intervento di fronte al Senato (lo si recupera facilmente su YouTube), Scalia spiega che ciò che caratterizza la democrazia liberale degli Stati Uniti non è tanto il Bill of Rights (“Ogni banana-republic nel mondo ha una carta dei diritti. Ogni Presidente a vita ha una carta dei diritti!”), ma la struttura istituzionale che divide il potere: non solo tra legislativo ed esecutivo, da una parte, e giudiziario, dall’altra, come avviene nei paesi di tradizione europea; ma anche separando nettamente legislativo ed esecutivo. “Tutto il potere legislativo è assegnato al Congresso”, si legge nel primo articolo della Costituzione, mentre “il potere esecutivo è assegnato al Presidente”, come stabilisce il secondo articolo. E quanto ai dazi, è il Congresso che “avrà il potere … di fissar[li] e riscuoter[li]” (art. 1, sez. 8).
Certo, tracciare una linea rigida tra le attribuzioni del Congresso e del presidente può, in pratica, essere complicato, e sono del resto ammesse in una certa misura deleghe di potere del primo in favore del secondo. Ma un limite può essere trovato, come lo stesso Scalia ha affermato e come il ricorso di Somin ha dimostrato, specie sulle questioni di maggior rilievo politico (cosiddette major questions), la disciplina delle quali il Congresso non può delegare in bianco all’esecutivo. Sulla base di questa doctrine, le Corti hanno bloccato negli scorsi anni alcuni ambiziosi programmi dell’amministrazione Biden che avevano “aggirato” il processo legislativo (per esempio, l’obbligo vaccinale anti-Covid a livello nazionale o la cancellazione dei debiti studenteschi). Il fatto che quella stessa doctrine sia stata ora utilizzata nei confronti di una decisione dell’Amministrazione Trump è una testimonianza dell’autonomia del diritto dalla politica.