L’autore del Cristo si chiamava Bruno Innocenti. Fiorentino, figlio di un orafo e allievo dell’Istituto statale d’Arte a Firenze. Un uomo mite e risoluto, colto e affabile, solitario. Il suo studioso più fedele, Marco Fagioli, ha pubblicato un formidabile catalogo a lui dedicato. Le due figlie si impegnano a tener viva la bellezza che hanno ereditato
Meravigliosa di scogliere e spiagge, Maratea, la perla del Tirreno (un’eco di Odessa…) riserva due sorprese a chi non la conosca ancora. La prima è una tipica domanda da Risiko: in che regione è Maratea? In Basilicata, infatti, proprio incuneata fra Campania e Calabria. L’altra è la statua del Redentore, 22 metri (la seconda dopo il Sancarlone di Arona), 19 metri di apertura delle braccia, in cima al monte San Biagio, sul Castello, la parte alta del paese. Costruita fra il 1963 e il 1965, la grande scultura è stata valorizzata negli ultimi anni, e una mostra curata nel 2022 dagli studenti del locale Liceo artistico ne ha ricostruito la storia. Nel primo dei bellissimi racconti di Ingeborg Bachmann raccolti in “Tre sentieri per il lago” (Adelphi), scritto nel 1972, Nadja, una esausta traduttrice simultanea, viaggia con un accompagnatore d’occasione fino a Maratea e resta schiacciata, terrificata, al cospetto di quella statua gigantesca: “Si stese sulla terra, le braccia allargate, crocifissa su quella roccia, minacciosa, senza riuscire a togliersela dalle testa”. La voce pertinente di Wikipedia cita quel brano del racconto, ma fa torto a Nadja e alla statua, sicché suggerirei al Comune e al suo ufficio turistico di completare la voce, perché poi lei, ridiscesa, si arrischia a riguardare su, “quelle fantastiche, alte colline, perfino le rocce di Maratea, anche quella più alta, più scoscesa e protesa verso il mare, e lassù la rivide, una figura piccola, visibile appena, con le braccia spalancate, non inchiodata alla croce, ma pronta a levarsi in un volo grandioso, destinata a volare in cielo o a precipitare nell’abisso”.
A commissionare il monumento era stato Stefano Rivetti, un industriale biellese attratto dalla Cassa del Mezzogiorno e ancor più innamorato del posto. L’autore del Cristo ci lavorò per sei anni, si chiamava Bruno Innocenti, fiorentino (1906-1986), figlio di un orafo, allievo prediletto di un famoso scultore della generazione precedente, il pistoiese Libero Andreotti (1875-1933) e suo successore all’Istituto d’Arte, dove ebbe a sua volta allievi illustri come Giuliano Vangi. L’Istituto statale d’Arte, oggi Liceo artistico, di Porta Romana, a Firenze, è trattato a volte come un parente povero dell’Accademia di Belle Arti, attaccata questa, nel cuore della città, alla Galleria omonima che tiene il David e i Prigioni – e il resto. A Porta Romana, dove s’impara meglio a lavorare con le mani, c’è peraltro una grandiosa e preziosa gipsoteca, un museo dei musei. Da lì sono venuti fuori Roberto Cavalli e Benito Jacovitti, Galileo Chini e Sandro Chia… Una felice circostanza famigliare mi fece conoscere e amare Innocenti, uomo mite e risoluto, colto e affabile, e solitario, che aveva sempre tenuto fra sé e le mode una distanza di sicurezza, o almeno di discrezione. Dall’origine paterna e dal suo Istituto d’Arte aveva preso un attaccamento al mestiere, a un artigianato scrupoloso e appassionato che gli faceva maneggiare mirabilmente gli oggetti più piccoli, gli smalti su rame, il bisquit, e i più monumentali, il marmo carrarino della memorabile Erinni (1935), e ogni materiale, dai gessi alle terrecotte, stucco, bronzo, pietra serena e, soprattutto negli ultimi anni, i legni duri, duttilmente assecondati nelle loro inclinazioni naturali. E l’intero Redentore finale scalpellato a mano. E poi la pittura, e l’ininterrotto piacere di disegnare.
Ora il suo studioso più fedele, Marco Fagioli, ha pubblicato un formidabile catalogo, “Bruno Innocenti. Statuario del Novecento”, Aión ed., che riproduce 500 sculture in 368 pagine di grande formato. Alcune di queste opere ebbero un forte risalto pubblico, come il grande gruppo di “Apollo e le Muse” (1933) per il proscenio del Teatro Comunale e poi del Maggio. Fagioli rintraccia le fonti letterarie, mitologiche e religiose, e ripercorre i rapporti stretti che, sulla scorta di Andreotti e dell’Antico Fattore, Innocenti tenne con i letterati contemporanei, l’amicizia con Vittorini, il sostegno a Montale nella tenzone poetica con Quasimodo nel 1931… Innocenti fu specialmente ritrattista, e devoto alla rappresentazione femminile. Musica, poesia e letteratura accompagnarono il suo lavoro, come mostrano certi titoli: “Ritratto a memoria d’una fanciulla in fiore intravista un giorno”… C’è un suo nudo di donna giovane, seduta, del 1935, “Madanda”, già nella collezione Bodmer, che mi commuove come solo certe poesie e certe arie d’opera, l’avevo vista esposta in una grande mostra a San Miniato nel 2011 e non smettevo di girarle intorno – farle la corte. La bellissima Erinni mi fa pensare ai prigioni – una prigioniera liberata – o alla sacrestia di San Lorenzo. In una pagina di ricordi, Marta Innocenti scrive: “Per noi figli queste sculture erano come delle amiche: le chiamavamo per nome, il nome della persona ritratta, del personaggio raffigurato, o della modella che aveva posato per lui. C’era, per esempio, una grande scultura, Erinni, in un marmo molto liscio e bianco, un po’ gelido. Lui ci incoraggiava a toccarla e accarezzarla. Col passare degli anni, Erinni prese dalle nostre mani il calore di una splendida patina”. Che due figlie, Marta Innocenti e Chiara Rivetti, siano ciascuna a suo modo impegnate a tener viva la bellezza che hanno ereditato, è una buona notizia, oggi.