La bicicletta è libertà. Intervista a Tiziano Dall’Antonia

“Accolsi l’invito di mio padre, appassionato di ciclismo: lui su una bici da corsa, io su una vecchia mountain bike Colnago. Un giorno, da Vittorio Veneto su per il Cansiglio, incontrammo una squadra. L’allenatore disse ai suoi ragazzi: vediamo se riuscite a staccarlo. E indicò me. Non ci riuscirono”

Finito come un calzino. Nel gergo del ciclismo significa l’estrema stanchezza fisica, il chilometro zero all’ora, la fine delle trasmissioni, l’eterno momento in cui ci si sente irrimediabilmente svuotati e moralmente esauriti. Invece Tiziano Dall’Antonia (con Marco Bandiera) ha cominciato con un calzino. Una girandola che solo il ciclismo sa regalare.

Dall’Antonia, ciclista per caso o vocazione?

“Per infortunio. Giocavo a calcio nella squadra del paese, Follina, fine stagione, entrata dura, crociati saltati. O si opera o si recupera, mi disse il medico. Ma io non ti vorrei operare, aggiunse, perché sei ancora nella fase dello sviluppo e i legamenti rischierebbero di spezzarsi un’altra volta”.

E allora?

“Un anno giocando a basket e pallavolo, l’articolazione bloccata in una ginocchiera rigida con le stecche metalliche. Ma al chiuso, una prigionia. Invece la bici, all’aperto, la libertà. Accolsi l’invito di mio padre, appassionato di ciclismo: lui su una bici da corsa, io su una vecchia mountain bike Colnago. Un giorno, da Vittorio Veneto su per il Cansiglio, incontrammo una squadra. L’allenatore disse ai suoi ragazzi: vediamo se riuscite a staccarlo. E indicò me. Non ci riuscirono. E io entrai nella loro squadra”.

Eppure la salita non era il suo forte.

“Invece andavo bene proprio dove c’erano salite e salitelle, mentre in volata avevo paura e tiravo i freni. Da professionista cambia tutto, un mestiere diverso, un altro mondo, un’altra era genealogica. Perché da professionista o eccelli in qualcosa oppure, se sei intelligente, ti adatti a fare il gregario. Io andavo bene dovunque, ma non ero velocista, non ero scalatore, non ero cronoman, quindi feci il gregario”.

Vittorie?

“Zero. Le due cronosquadre non valgono, anche se ottenute in contesti cruciali, la prima alla Settimana Coppi e Bartali, la seconda al Giro d’Italia, importanti per le vittorie finali di Ivan Santaromita e Ivan Basso. E poi nelle cronosquadre non c’era solo grande sofferenza, ma anche grande piacere, quello della condivisione, una cosa rara. Due o tre volte sono stato vicino alla vittoria individuale. Circuit de la Lorraine 2007, primo del gruppo, ma davanti c’era ancora un fuggitivo, gli arrivai a mezza ruota. Giro di Turchia 2008, ero da solo, ma a 2-300 metri dall’arrivo le ammiraglie si bloccarono in mezzo alla strada, misi i piedi a terra, sopraggiunse il gruppo, vinse Lorenzetto”.

Fatiche?

“Giro d’Italia 2008, tappa di Catanzaro, volata, caduta, dolori dovunque, a cena andai in carrozzina, la notte non chiusi occhio, la mattina ci vollero cinque minuti per salire in bici, pronti via pancia a terra, ma arrivai entro il tempo massimo, e tappa dopo tappa mi ripresi. Giro d’Italia 2010, Forcola di Livigno, Passo di Eira, Passo di Foscagno, Gavia e Tonale, mal di pancia, mal di stomaco e mal di testa, sofferenza pura, arrivai bianco cadaverico, finito come un calzino. E pensare che la sera prima, eccezione più unica che rara, ci era stato concesso di mangiare un piatto di pizzoccheri”.

A proposito di calzini. Quando nacque l’idea?

“In Svizzera, Gp di Gippingen 2014, in squadra e in camera con Marco Bandiera. Mi mostrò i suoi calzini. Li provai, li indossai, ci corsi. Erano diversi, più resistenti, più aderenti, opera di un calzificio. Da lì alla fine dell’anno li distribuivamo gratis agli altri corridori. D’inverno ci dedicammo alla ricerca, elaborandoli e perfezionandoli, fino a creare un nostro modello. Nel 2015 fummo sorpresi dalle richieste, al Giro d’Italia trequarti del gruppo aveva i nostri calzini replicando esteticamente quelli ufficiali delle squadre per non avere problemi con gli sponsor. Nel 2016 fummo travolti dalla situazione, al Giro d’Italia Gaviria in maglia rosa pubblicamente si sfilò i suoi calzini bianchi e indossò i nostri rosa, il suo team manager Lefevere ci chiamò indignato, gli ordini dei negozi fioccavano e noi…”.

Voi?

“Non avevamo nulla, se non due garage, quello mio e quello di Marco, vuoti. Non avevamo neanche un nome. Fu una sera che, in ritiro in Liguria, in camera c’era anche Oscar Gatto, nacque MB, le iniziali di Marco Bandiera. Poi correre e gestire divenne impossibile. Smettemmo di correre e cominciamo a studiare, imparare, produrre, vendere, gestire. Diplomato ragioniere, frequentai corsi e master, anche quelli della Confindustria”.

Chissà i suoi amici?

“Una bella banda. Marzio Bruseghin detto Bruss, asino; Mauro Da Dalto il Negro; Franco Pellizotti semplicemente Pelli; Mirko Lorenzetto il Panchito, dal nome di un panino all’autogrill; e io, ma era un paradosso e una provocazione, il Cretino. Al di là del Piave, poi, Bandiera, Ballan, Gatto, Pozzato, Tosatto detto il Toso… E Alessandro Da Re, per tutti Bomba. Ero così cretino che a lui che si rifiutava per principio di sposarsi, al ritorno da due settimane di vacanza, avevo organizzato un matrimonio finto, ma così finto da sembrare più vero del vero, con tanto di abito, sfilata, clacson, cerimonia, ristorante, torta nuziale e bacio della sposa. Vede…”.

Che cosa?

“Nessuno è sempre uguale a sé stesso. Tra i corridori, ero un gregario. Con gli amici, un goliardico. Nel lavoro, come bisogna essere: preciso. In famiglia, be’, movimentato. Però uguale a me stesso, almeno in una cosa, lo sono. La mia Follina, tra Vittorio e Valdobbiadene, sotto il San Boldo, 1500 abitanti, non la cambierei per niente al mondo. Non siamo più nel medioevo: basta un wifi per essere anche a Shanghai”.

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