Il Pride, l’Ucraina e l’ultima legge che preoccupano l’Unione europea
Bruxelles. Venti stati membri dell’Unione europea ieri hanno firmato un documento per denunciare la legge adottata dall’Ungheria di Viktor Orbán per vietare il Pride, perché vìola la libertà di espressione, il diritto di manifestare in modo pacifico e il diritto alla privacy. “Siamo profondamente allarmati da questi sviluppi che sono contrari ai valori fondamentali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e del rispetto dei diritti umani, come stabilito dall’articolo 2 del trattato sull’Ue”, hanno detto i firmatari, chiedendo alla Commissione di usare tutti gli strumenti a disposizione per sanzionare l’Ungheria, se Orbán non modificherà la legislazione. L’Italia è tra i cinque assenti, con Bulgaria, Croazia, Romania e Slovacchia (la Polonia ha la presidenza di turno dell’Ue che, per prassi, non firma documenti).
L’occasione era una riunione del Consiglio Affari generali, nella quale l’Ungheria è stata messa nuovamente sul banco degli imputati per la procedura dell’articolo 7 del trattato, che prevede di privare del diritto di voto i paesi che violano sistematicamente i principi fondamentali. Il numero di firmatari del documento sul Pride è importante. Ventidue è il numero di stati membri necessario ad andare avanti nella prossima tappa della procedura dell’articolo 7, quella necessaria a formalizzare l’esistenza di “un chiaro rischio di una grave violazione dei princìpi fondamentali”. Con la Polonia, manca un solo stato membro. Un voto metterebbe il governo di Giorgia Meloni davanti a una scelta imbarazzante, nel momento in cui la frustrazione e la rabbia per il sabotaggio da parte del premier ungherese del sostegno all’Ucraina e della sicurezza europea sono sempre più forti. Proteggere Orbán nella sua deriva autoritaria o difendere gli interessi del resto dell’Ue?
Orbán ha rotto l’unanimità sul sostegno all’Ucraina, ha paralizzato i fondi per gli aiuti militari, blocca l’apertura dei capitoli negoziali del processo di adesione e minaccia di porre il veto alla proroga delle sanzioni settoriali contro la Russia. Se l’Ungheria metterà in pratica la sua minaccia, alla fine di luglio oltre 200 miliardi di euro di attivi sovrani della Russia immobilizzati potrebbero essere scongelati e finire nelle casse di Vladimir Putin. “C’è un limite a ciò che possiamo accettare come azioni dell’Ungheria che vanno contro gli interessi di sicurezza di tutta l’Ue”, spiega al Foglio un diplomatico europeo. L’Alto rappresentante, Kaja Kallas, ha detto che sta lavorando a un “piano B” sulla proroga delle sanzioni. Ma il problema è sempre più ampio. “C’è una radicalizzazione dell’atteggiamento di Budapest sul tema della sicurezza e la voce comune dell’Ue. Devono esserci delle conseguenze in un modo o nell’altro”, dice il diplomatico. Per togliere il diritto di voto all’Ungheria con l’articolo 7 serve l’unanimità. Un voto di 22 stati membri per compiere il prossimo passo della procedura servirebbe a inviare un segnale a Orbán sulle sue scelte esterne e interne.
Ancor più della legge anti Pride, l’Ue è preoccupata da un progetto di legge chiamato “sulla trasparenza della vita pubblica” che potrebbe portare l’Ungheria verso una piena autocrazia. Con questa legislazione, imitando Vladimir Putin, Orbán potrebbe vietare i finanziamenti a tutte le organizzazioni – compresi i partiti politici – che considera ostili con la scusa della difesa della sovranità nazionale. Secondo Amnesty International, la legge “fornirebbe al governo gli strumenti finali per mettere a tacere in modo efficace e completo le restanti voci indipendenti in Ungheria”. La scorsa settimana la Commissione ha chiesto di ritirare il progetto di legge, minacciando una procedura di infrazione. “Abbiamo grossi problemi con l’Ungheria, tra cui la cosiddetta legge sulla trasparenza”, ha detto ieri il segretario di stato tedesco per gli Affari europei, Gunther Krichbaum: “Non è una cosa da poco, senza libertà di espressione non c’è libertà di stampa e senza libertà di stampa non c’è democrazia”. La determinazione del nuovo governo di Friedrich Merz potrebbe spingere la Commissione e gran parte degli stati membri a una resa dei conti definitiva con Orbán.