Il nuovo Damiano David, accolto nell’arena planetaria del pop inutile

“Funny little fears” è un album impeccabile e noiosissimo. Il fu leader, volto e voce dei Måneskin ha fatto la scelta sicura ma al tempo stesso più banale e spersonalizzante nel tentativo di ritagliarsi un buon posto nella popolosa tribunetta delle popstar contemporanee

Cambiare violentemente direzione, invertire il percorso di una carriera cominciata in tutt’altra maniera, sembra essere lo slancio del momento tra i musicisti della scena italiana. Della tendenza diversi casi ragguardevoli sono disseminati nell’area rap/trap, salvo poi approdare per forza alle scelte di Damiano David, che fu leader, volto e voce dei Måneskin durante la loro bruciante parabola, iniziata nei cortili dei licei romani, decollata durante un’edizione di X-Factor, fino a raggiungere vette impensabili, prima a Sanremo, poi col trionfo all’Eurovision contest del 2021 e infine con un’autentica conquista dell’America, esibendo quell’etichetta di “ultima band rock” che ha sollevato tanto amore e altrettanta antipatia in chi vedeva nel quartetto romano un prodotto artificioso, derivativo e imperdonabilmente insincero. Del resto è strano come sia bastato piuttosto poco a far precipitare in basso le azioni dei Måneskin nel borsino emotivo dei ragazzi italiani, fino a farne un rinnegato modello dell’anno scorso. E non è un caso che, giusto in tempo, all’inizio dell’autunno scorso, Damiano abbia annunciato la scelta di lanciare la propria carriera solistica, mettendo in standby quel progetto, che a questo punto difficilmente potrebbe ripartire col vecchio formato mantenendo una qual parte della credibilità di un tempo. E infatti appena tramutatosi in solista, il 26enne Damiano ha provveduto al più radicale restyling artistico, ovviamente a partire dalle scelte musicali e arrivando a revisionare in toto il look e i contenuti delle sue canzoni. In queste vesti di uomo nuovo David ha fatto la scelta sicura ma al tempo stesso più banale e spersonalizzante: quella di consegnarsi a un pool di produttori, autori – e ovviamente stylist, consulenti d’immagine e consulenti d’ogni genere – optando per il tentativo di ritagliarsi un buon posto nella popolosa tribunetta delle popstar contemporanee, quelle con indirizzo internazionale e vocazione spiccatamente commerciale, riccamente confezionata nella sofisticata versione da shining floor. Una volontà certamente legittima e consapevole, che però non aggiunge niente di nuovo sotto il sole, ricalcando un procedimento di spersonalizzazione e omologazione, guidato dalle routine di sapienti professionisti, che canalizzano i punti di forza di Damiano (per esempio il suo sex appeal naturale, ora sempre più venato di divismo piacione a misura di social), senza rispettare alcune delle sue prerogative originali, tanto e spontaneamente apprezzate dal suo primo pubblico (ad esempio il suo trasgressivo gusto per il travestitismo).

Il risultato del procedimento – corredato dall’annuncio di un tour a ottobre già sold out – si chiama “Funny Little Fears”, un album interamente cantato in (ottimo) inglese, e ben attrezzato per giocarsela nell’arena planetaria del pop completamente inutile. Una produzione gestita dai soliti noti: Jason Evigan, Mark Schick, Sammy White, Cleo Tighe, Noah Cyrus (sorella minore di Miley), ovvero le firme dei successi di gente come Demi Lovato, Dua Lipa, Charli XCX e perfino Madonna. E nella cabina di regia dell’artista a cui Damiano David adesso va inevitabilmente accostato fino a una rischiosa somiglianza: Harry Styles, che pure ha dalla sua un tocco ironico e un savoir faire che spicca nettamente a fronte della legnosità delle prime apparizioni del new Damiano, per quanto anche nel suo caso è innegabile che la stoffa della star ci sia e le prospettive non manchino. Con 14 pezzi che coprono praticamente tutte le possibili declinazioni del pop da alta rotazione, “Funny Little Fears” è ciò che ci si aspetta prima di ascoltarlo: impeccabile, lontano e altezzoso, con riflessi melò (nei testi si insiste in molta inspiegabile autocommiserazione da artista incompreso) e nel complesso una decisa sensazione di trascurabilità. Per non parlare del pendant visivo-narrativo che ha accompagnato l’uscita dell’album, con tutti quei racconti di come l’illuminazione per dare alla luce questo lavoro gli sia venuta nel pieno di un soggiorno a Joshua Tree, il mitico deserto magico dietro Los Angeles, lo stesso immortalato dagli U2 e dai film psichedelici di Jim Morrison, insomma l’estrema Thule in cui i rocker memorabili andavano a purificarsi l’anima, o almeno pensavano di farlo. Mah.



Il disco lo si ascolta con moderato piacere, ma se ne può fare a meno senza rimpianti e si fatica a cercare un momento memorabile, che ci faccia rivivere l’occhiata trasversale e poi il secondo sguardo incuriosito che Damiano seppe provocare agli esordi. Forse giusto in coda, nell’ultimo pezzo, c’è un coro capace di rompere la nostra cinica scorza, almeno fino al momento in cui non andiamo a controllare il titolo della canzone: “Solitude (No One Understand Me”), nessuno lo capisce. Allora si passa oltre, sbuffando. Dai Damiano, che peccato. C’è un sacco di gente che ti aveva preso sul serio.

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