Il club spagnolo giocherà contro il Chelsea la finale di Conference League. Sembrava un’armata Brancaleone, si è trasformata in una squadra tosta costruita con chi ha avuto addosso l’etichetta di bidone
A leggere la formazione titolare del Betis Siviglia si rischia di venire risucchiati in una specie di “effetto revival”. Come in quelle sudatissime nottate estive in cui un dj prova ripopolare una pista ormai deserta mettendo su una canzone che aveva avuto successo qualche tempo prima per poi perdersi nell’oblio. Una sensazione straniante che spiega piuttosto bene il presente di questo Betis, una squadra che assomiglia a un Frankenstein assemblato con gli scarti altrui, un’entità che si avvicina più all’armata Brancaleone che alla falange oplitica.
Almeno sulla carta. Perché il campo sta raccontando una storia molto diversa.
Da un paio di stagioni l’Andalusia sta vivendo nel Sottosopra. Il Siviglia, il club che nel nuovo millennio ha vinto sette volte l’Europa League, lotta per non retrocedere. Il Betis, la società che per due decenni ha prodotto bile a secchiate per i successi dei cugini, si ritrova in Europa. E ora rischia anche di alzare al cielo il suo primo trofeo internazionale. Una storia al contrario costruita non con iniezioni di capitale, ma prendendo consapevolezza una realtà piuttosto brutale. Ossia che i giocatori di prima fascia non avrebbero mai scelto di andare al Betis. Se non per ritrovare se stessi. È da questo punto di partenza che negli ultimi due anni il ds del club, Manu Fajardo, ha costruito il suo metodo. Gli uomini mercato biancoverdi hanno stilato rapporti su tutti i calciatori con due caratteristiche fondamentali. Dovevano avere dell’alto potenziale. Ma dovevano anche venire da un paio di annate complicate. L’obiettivo era quello di rigenerarli, di regalargli una seconda vita sportiva. Voleva dire formare un gruppo mettendo insieme tante solitudini diverse.
Il tassello più importante è stato l’arrivo di Isco. A trentuno anni il centrocampista di Benalmádena aveva vissuto un’infinità di vite diverse. Grande promessa del Malaga che aveva conquistato i quarti di Champions, erede designato di sua maestà Andres Iniesta nella Nazionale di Lopetegui, stella del Real Madrid di Zinedine Zidane. Ma qualcosa è cambiato all’improvviso. Isco è diventato prima un reietto delle merengues, poi una comparsa del Siviglia, infine un calciatore disoccupato. Fino a quando nel luglio del 2023 il Betis non gli ha offerto un contratto. Era qualcosa di molto vicino a una ciambella di salvataggio. O il centrocampista l’afferrava e provava a salvarsi la vita oppure la sua carriera sarebbe naufragata. Una volta per tutte. La maglia biancoverde ha stravolto il finale della storia di un calciatore capace di vincere cinque Champions League. Fino a fargli incarnare quell’aforisma di Pavese: “Ho trovato compagni trovando me stesso”. Lo spagnolo è rifiorito. Ha ripreso a danzare fra le linee con quel suo passo dinoccolato, quasi flemmatico, a nascondere il pallone fra le sue tibie arcuate. Nelle prime 15 giornate il centrocampista non ha giocato neanche un minuto per via di un infortunio al perone. Poi quando è rientrato è stato semplicemente devastante: nove gol e otto assist in campionato. Due reti e due passaggi vincenti in Conference League. Lo spagnolo non è più il mago della croqueta, il destro-sinistro con cui faceva sparire e riapparire il pallone. Ora è un giocatore capace di incidere nuovamente sulle fortune di una squadra. Ed è riuscito a riconquistare la Nazionale. Merito anche di ciò che gli è stato costruito intorno.
La lista dei flop che si sono ricostruiti al Betis è impressionante. In difesa c’è Natan, l’uomo che lo scorso anno era arrivato a Napoli per sostituire Kim e che presto si era trasformato in manna dal cielo per gli attaccanti avversari. A sinistra c’è Ricardo Rodriguez, ex terzino di spinta del Wolfsfurg che al Milan e Torino era diventato uno dei tanti. Ma soprattutto in avanti ci sono Lo Celso, uno dei rebus irrisolti del Tottenham, e Antony, mister 95 milioni di euro eletto da tifosi e addetti ai lavori come gran visir di tutti i “bidoni” della storia dello United.
Il primo ad arrivare in Andalusia, sette anni fa, è stato Marc Bartra, il centrale che a Barcellona veniva considerato l’erede di Piqué e che poi si è scoperto essere semplicemente se stesso. Tutto sotto la regia di Manuel Pellegrini, 72 anni, fabbricatore di sogni per le squadre di provincia e un titolo nazionale conquistato con il City. Dopo l’esperienza in Cina e al West Ham sembrava aver scelto il Betis come buen retiro. Fino alla Coppa del Re del 2022. Fino a stasera. Perché per i biancoverdi questa Conference vale quanto una Champions League.