La recensione del libro di Michael Bible edito da Adelphi, 156 pp., 18 euro
“È qui che il passato diventa futuro. Due tartarughe, due innamorati e un uomo con un completo di seersucker. Tutti destinati a questo luogo e a questo tempo”. E’ un mondo sospeso tra una dimensione visionaria e una quasi simbolica quello tratteggiato nell’ultimo romanzo di Michael Bible. C’è la cittadina di Harmony, nel profondo sud degli Stati Uniti, c’è una coppia di giovani adolescenti innamorati – François ed Eleonor – dalle famiglie disfunzionali e alla deriva e c’è un incidente dai contorni misteriosi che è anche l’antefatto e l’ouverture del romanzo. E poi ci sono due tartarughe, Lazarus e Little Lazarus, che a loro modo sono testimoni di quanto è accaduto. La narrazione adotta per ogni capitolo un punto di vista differente, tornando su quanto è accaduto la notte dell’incidente e raccontandolo da diverse prospettive. La coppia di adolescenti si separa ma continuerà a vivere nel ricordo del loro legame e di quanto accaduto quella notte. I personaggi umani appaiono indagati dallo sguardo delle tartarughe che, essendo gli animali viventi più longevi, vedono transitare davanti ai loro occhi – in un tempo quasi dilatato – le vite degli altri, di cui sono testimoni silenziosi anche solo per il fatto di essere presenti fisicamente. Come in un piano sequenza, le tartarughe osservano, scandagliano, relativizzano gli accadimenti. Sono capitali per il solo fatto di esistere. A loro sono devoti i seersucker, che le considerano divinità arcane e dai poteri ultraterreni. “C’era anche qualcosa di molto più profondo che i miei sensi non riuscivano a cogliere. Una sorta di lieve, luminosa assenza di peso. La sensazione che la gente spera di provare quando prega Dio”. La verità degli accadimenti appare come qualcosa di inaccessibile e i personaggi che si muovono sulla scena cercano di barcamenarsi, resistere e parare i colpi di quanto la vita presenta loro. Cercano, vivono in modo scomposto, cercano un ordine dove l’ordine non si può trovare perché non c’è. Ne nasce una storia frammentaria, onirica e a tratti surreale, in cui Bible riesce a tenere insieme elementi apparentemente discrasici facendoli rimare in modo sinfonico. C’è poesia e lirismo, ci sono David Lynch e la grande tradizione degli scrittori del sud. C’è la genialità di portare il lettore in un viaggio dove sembra di non poter capire nulla all’inizio ma poi ci si accorge via via che tutto sta insieme, intrecciato da un senso più profondo. Dove fine e inizio si confondono. “Vorrei scrivere la mia storia, o almeno la mia versione dei fatti, ma non riesco a smettere di guardare la neve. Questo posto lo chiamano Goodbye Hotel perché per tanta gente è l’ultimo domicilio e probabilmente sarà così anche per me”.
Michael Bible
Goodbye Hotel
Adelphi, 156 pp., 18 euro