Quando Candidò Cannavò scrisse “Ho chiesto nell’ambiente il nome di un solo corridore sul cui nome si possa mettere la mano sul fuoco: nessuno ha saputo pronunciarlo”, fu l’unico a rispondere
Miculà Dematteis aveva 23 anni. Dopo quattro anni fra gli Under 23 (primo in una tappa e secondo nella classifica finale al Giro del Veneto e delle Dolomiti 2005, secondo al Giro delle Pesce Nettarine 2002, quarto al Giro d’Italia 2004, quarto e quinto al Giro delle Valli Cuneesi 2005 e 2004, secondo al Palio del Recioto 2005), divenne professionista (migliore risultato del 2006, 15° in una tappa della Settimana Coppi e Bartali; migliore del 2007, 14° al Gran premio di Lugano), ma la sua squadra, la Tenax, non lo fece mai partecipare al Giro d’Italia. Il 30 luglio 2007, al termine del Tour de France vinto dallo spagnolo Alberto Contador in cui gli organizzatori del Tour avevano costretto il danese Michael Rasmussen, in maglia gialla, a ritirarsi dalla corsa per non aver rispettato la reperibilità ai controlli antidoping e mentito sui luoghi di allenamento, Candido Cannavò – nella sua rubrica “Fatemi capire” sulla “Gazzetta dello Sport”, sotto il titolo “Corridori smettetela di mentire” – scriveva: “Ho chiesto nell’ambiente il nome di un solo corridore sul cui nome si possa mettere la mano sul fuoco: nessuno ha saputo pronunciarlo”. L’unico a esporsi, schierarsi e rispondergli fu proprio Miculà.
Dematteis, perché gli rispose?
“Per amore della verità. Presi il pc, il suo indirizzo era riportato sul giornale, scrissi un’email, innanzitutto mi presentai, poi precisai: ‘…Sperando di non annoiarLa, Le racconto la mia giornata tipo. Sveglia alle ore 7.00-7.30. Colazione. Un’occhiatina fuori per controllare il tempo, mi vesto e via in bici. Due, tre, quattro, cinque o sei ore, a seconda del tipo di allenamento. Ripetute, potenziamento, dietro macchina o solo una semplice sgambatina. Dipende. Ritorno a casa. Pranzo. Al pomeriggio un po’ di relax, leggo, scarico i dati del cardiofrequenzimetro sul computer. Cena e poi a nanna, quasi mai dopo le 23. Da lunedì a domenica, Natale, Capodanno, Pasqua, tutto compreso. Estate e inverno, autunno e primavera. Con il sole o con la neve. Sono attento all’alimentazione, ma senza rinunciare a un po’ di cioccolato e a qualche gelato, per cui vado pazzo! Amo molto la montagna, ma rinuncio alle passeggiate, non adatte ai muscoli di un ciclista. Ho una moglie, con cui mi piacerebbe fare qualche weekend al mare, ma non si può. Devo allenarmi. Non ho mai fatto uso di sostanze dopanti. MAI. Ho un medico, sì, quello del Servizio sanitario nazionale, cui mi rivolgo per curare l’influenza e il mal di gola’”.
Entrò nei dettagli?
“Certo. Aggiunsi: ‘… Nella mia carriera di ciclista (da dilettante a ora) ho corso circa 340 corse e ne ho portate a termine almeno 330’, ‘Da professionista non ho ancora vinto. Ho però assaporato la gioia di transitare nelle prime posizioni in più di una gara, in mezzo a due ali di folla che mi incitavano. Una bella soddisfazione. Fatica ripagata. Il mio ematocrito è 48,5 a gennaio, ora è a 43. Per me è normale. Significa che sono stanco. Quest’anno ho fatto 25.400 km in bicicletta e sono un uomo, non una macchina. Amo molto il mio lavoro. Lo faccio con passione. È un lavoro duro, che richiede molti sacrifici, ma finché le mie gambe e la mia testa mi sosterranno, io ce la metterò tutta…’.
E la lettera fu pubblicata.
“La scrissi pensando che non venisse neanche considerata, figurarsi pubblicata. Conoscevo Cannavò di vista, firma, fama, ma non lo avevo mai incontrato e mai lo avrei incontrato dopo. Concludevo la lettera così: ‘Il ciclismo è uno sport magnifico, fatto di forza, potenza e tattica. Io continuerò ad allenarmi duro, crederci e dare tutto me stesso per cercare di salire sul podio e onorare lo sponsor. Non sarà facile, ma quando succederà sarò stato ripagato di tutte le rinunce, con la consapevolezza che il mio ciclismo pulito esiste. Penso che Lei non abbia mai sentito parlare di me, ma sono sicuro che se chiederà nell’ambiente il nome di un corridore sul cui nome si possa mettere la mano sul fuoco e magari suggerirà il mio, troverà molte persone che lo faranno. Per gli altri io non garantisco. Con stima’”.
Che cosa accadde?
“Ricevetti qualche telefonata: il mio collega Roberto Petito, il mio compagno Claudio Cucinotta, il mio direttore sportivo Fabio Bordonali. Il 5 agosto andai a correre il Giro dell’Appennino. Ebbi l’impressione di essere il signor Nessuno. Sconosciuto, ignorato, invisibile. Chi si voltava dall’altra parte, chi non rispondeva al mio saluto. Ebbi la conferma che l’ambiente era forse complice o compromesso, comunque ammalato. Ma non ero l’unico: altri corridori la pensavano come me, e tutti senza riuscire a fare nulla di più. Chiusi la stagione, dopo il 17° posto alla Monte Paschi Eroica (poi Strade Bianche, nda) con il 59° al Giro di Lombardia. In scadenza di contratto, mi trovai a spasso”.
Coincidenza, sfortuna o punizione?
“Nel 2008 trovai un ingaggio nella seconda squadra della Saunier Duval, una Continental riservata ai giovani, sei-sette vittorie in corse minori Svizzera e Francia, poi il team fu coinvolto nel doping di Riccò e Piepoli al Tour, noi corridori sembravamo appestati, il team manager Mauro Gianetti (quello attuale di Tadej Pogacar, nda) sparì, mai più sentito, e la promessa di essere promosso alla prima squadra svanì. Nel 2009 trovai un altro ingaggio, una nuova squadra francese con base a Montecarlo, sponsor canadese e la missione di opere umanitarie (pozzi) in Africa, ma una mattina, durante il primo raduno a Saint-Raphael, in Costa Azzurra, ci comunicarono che non esistevano coperture economiche ed eravamo tutti liberi”.
Poi?
“Muratore, magazziniere, fino a responsabile del settore logistica, qui dall’autunno 2011 alla primavera 2022, da allora mi occupo della logistica per le Officine Mattio, dove si costruiscono biciclette italiane al 100 per cento. Un ritorno alla mia passione e anche alle mie radici. Nonno alpino, papà fondista e scialpinista, i miei fratelli campioni di corsa in montagna e campestre, io nato a Rore, 150 abitanti, frazione di Sampeyre, Valle Varaita, Piemonte, Occitania, la strada che sale o che scende, le montagne che respiri e abiti, che stanno fuori ma anche dentro di te. E le mie montagne non le ho mai perse di vista. Anche adesso, se posso, quando posso, pedalo. Esco da casa, a Piasco, e in una cinquantina di chilometri – non si può sbagliare – arrivo sul Colle dell’Agnello. E in vacanza io, mia moglie e le mie due figlie, Vittoria di 16 anni e Agnese di 13, pallavoliste, saltiamo sulle bici e pedaliamo. In autonomia”.
Miculà, mai pensato: se non avessi scritto quella lettera…
“Mai. Questione di pelle, anima, coscienza. Non fui mai avvicinato, non mi fu mai proposto doping. Ma se avessi avuto intenzione, non sarebbe stato difficile. Invece ho sempre voluto starmene alla lontana. Volevo capire com’era il ciclismo, lo capii, non ho rimpianti o rimorsi, non ne ho mai fatto una malattia”.