Fra le cartelle cliniche Serena Vitale cerca di ritrovare la sorella, dotata pianista precipitata a sedici anni in un inferno psichico. Un libro limpido e amorevole, su quel “tragico addio alla realtà di cui va rispettato il mistero”
“Serena vitale racconta le voragini lasciate dalla schizofrenia ecc ecc/ Di nuovo: e io dov’ero?”. Se lo chiede a più riprese, Serena Vitale, tra le pagine di “Cartella clinica” (Sellerio, pp. 117, euro 13). La domanda è secca e ne sottende altre. Per esempio: perché non mi sono accorta? Oppure: perché non ho visto quel che avrei dovuto vedere? E anche: perché il linguaggio dei ricordi non coincide con quello delle cartelle cliniche?
E infatti se le rilegge tutte, quelle cartelle. Le indaga di nuovo o forse per la prima volta, Serena Vitale. Le vaglia parola per parola. Le interroga. E cerca, scartabellando, di rincontrare la sorella Rossana, dotata pianista, precipitata a sedici anni in un inferno psichico. Cerca di acchiappare un fantasma, di dare un nome alle voragini e alle ombre, nel tentativo di far combaciare i lembi di due verità che non sempre si toccano – la verità clinica e la verità affettiva. I referti dicono “sindrome schizofrenica”, ma i ricordi molto altro: una storia meno sbrigativa, meno univoca, nutrita di dolore ma anche di allegria, di eccentricità e accessi maniacali ma anche di complicità, di giorni che sono esistiti (tra sciarpe colorate, cerchietti per i capelli e invidiatissime gite in aereo a duemila metri per curare la pertosse) e che sono più sfaccettati di una diagnosi. Ed ecco che questo mazzo di pagine si apre come un fiore fino a mostrare colori diversi, fino a diventare la volontà di capire sulla pagina come funziona una famiglia e chi siamo per gli altri, soprattutto per i più prossimi. E cosa sono i ricordi?
Memoir sottile e piccola storia famigliare interrogativa, “Cartella clinica” è uno dei libri più belli in circolazione. Non servono mai milioni di parole quando si sa cosa dire e come dirlo. E non servono intavolature strazianti per raccontare lo strazio vero, di una ragazzina che un giorno si è smarrita e non si è più trovata. “Non avevamo perso uno solo dei suoi saggi di fine anno al Conservatorio,” scrive Vitale. “Le mani si muovevano rapide, leggerissime, e il volto era sereno, il corpo disteso, non si accaniva sulla tastiera, non allargava i gomiti, non teneva alte le spalle. Era perfetta. E felice – così almeno sembrava”.
Eppure quella ragazzina cercherà di cavare gli occhi alle bambole (“sembra che mi guardino”). E si fisserà allo specchio odiando con accanimento i suoi occhi storti (“sono falsi”) – occhi odiati non meno dei denti. E vivrà in balia di pensieri ossessivi del genere: “Se voglio, chiudo gli occhi e muoio. Posso morire e far morire gli altri”.
E’ la storia del congedo dal mondo di Rossana, questo libro limpido e amorevole, e di tutti gli spettatori del crollo. “La schizofrenia,” scrive Vitale scusandosi con la sorella, “non è un’influenza: “Ieri ho preso freddo, oggi ho la febbre”. E’ un tragico addio alla realtà di cui va rispettato il mistero”.
Proprio questa è la forza del libro: raccontare il mistero. Anche il mistero di quanto si possa essere estranei seppur contigui. Non tanto perché dei vicini si sa di meno che dei lontani, quanto perché ognuno è preso da sé, dalla propria vita, e la vera grande tragedia è sempre la distrazione. Ciascuno ha domande che lascia senza risposta perché è inevitabile, perché la vita è agibile solo fino a un certo punto, e non si fa mai quel che si vorrebbe fare (ma cosa?) e non si vede mai quel che si dovrebbe vedere (di nuovo, cosa?) e così nella memoria restano impigliati brandelli che non coincidono nemmeno con se stessi.
Mentre racconta tutta questa asimmetria, questa discrepanza, questa beata ignoranza che col tempo si trasforma in dolore, Serena Vitale fa il miracolo di regalarci, riflessi nel cristallo, un’intera famiglia, un interno brindisino e poi romano, e una messe di aneddoti che portano il passato fino a qui, coi suoi fantasmi, con la bellezza di certi aneddoti che riassumono una vita. Insomma, tiri la codina al topo del passato e ti si presenta l’elefante del tempo. Che poi è il vero protagonista di questo libro. Lo è nel suo dissolversi, nel confondere il comico e il tragico e il buffo e il drammatico, nel lasciare senza risposta quasi tutte le domande.
Serena Vitale conosce la vita e la sa raccontare, senza mai rinunciare all’ironia e a uno sguardo sul presente. E la vita è questa impenetrabilità di cui non ci preoccupiamo, finché poi un giorno ce ne preoccupiamo. Allora tutto ci sembra chiaro, chiara anche l’oscurità, ma non è mai così, ennesima illusione. E resteranno sempre con noi quelle penombre che, ignari, in un pomeriggio di sole inventato, abbiamo chiamato consapevolezze.