La democrazia secondo Maduro

Le elezioni regionali e legislative di domenica in Venezuela hanno portato alla vittoria del Grande Polo Patriottico, la coalizione di Nicolàs Maduro. Il regime festeggia, ma l’85 per cento dei venezuelani avrebbe boicottato il voto

Dopo le elezioni regionali e legislative di domenica in Venezuela il Consiglio elettorale nazionale ha annunciato la vittoria schiacciante del Grande Polo Patriottico, la coalizione del regime di Nicolás Maduro, che avrebbe ottenuto l’82,68 per cento dei voti. Ma l’affluenza dichiarata si è fermata al 42,63 per cento – già un crollo rispetto al 57,9 per cento delle presidenziali – mentre l’opposizione parla di una partecipazione intorno al 12 per cento, confermata anche da osservatori indipendenti. Sembrano confermarlo le immagini circolate online dei seggi vuoti. L’opposizione ha boicottato il voto dopo le presidenziali truccate del 28 luglio, e la sua leader María Corina Machado ha parlato di un “atto di disobbedienza civile” da parte dell’85 per cento dei venezuelani. Due dati quasi identici, eppure opposti. Quel che è certo è che si è votato in un clima di paura: arresti di massa, repressione e sorveglianza.

Anche comunicare via telefono è pericoloso. “Evitiamo qualsiasi tecnologia che possa localizzarci”, ha detto in un audio Corina Yoris, ex candidata presidenziale. Intanto, a Washington, sabato hanno parlato per la prima volta in conferenza stampa i cinque oppositori che sono stati liberati dall’assedio per oltre 400 giorni nell’ambasciata argentina di Caracas. La loro liberazione è stata definita “una delle operazioni più spettacolari mai viste”. Non hanno potuto rivelare i dettagli, ma hanno denunciato condizioni disumane: mesi senza luce o acqua, sotto l’assedio delle forze speciali di Maduro. Intorno all’ambasciata, posti di blocco, cecchini, droni, cani addestrati. Solo i pappagalli guacamayas riuscivano a entrare e uscire: per questo, l’operazione è stata chiamata “Guacamaya”. “Oggi in Venezuela opera una diplomazia degli ostaggi”, hanno detto. “Quando abbiamo deciso di entrare in un’ambasciata, lo abbiamo fatto cercando protezione, non una prigione. (…) Ciò che il regime sta dicendo è che non esiste un posto sicuro di fronte alle sue dinamiche criminali”.

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