All’assemblea annuale a Bologna, Emanuele Orsini ha denunciato i nodi strutturali che frenano la crescita industriale italiana, a partire dal tasto più dolente battuto e ribattuto dal presidente: il caro energia. Il governo ha promesso impegno e aperture, ma senza proporre una svolta sui prezzi o sugli investimenti
Bologna. Orgoglio e frustrazione: l’umore oscillava dall’uno all’altra nella grande sala dove si è riunita l’assemblea della Confindustria, per la prima volta qui a Bologna, all’EuropAuditorium di piazza della Costituzione lambita dalla mitica, anzi ormai mitologica, via Stalingrado. Orgoglio per la capacità di stare a galla in mezzo a una tempesta che cambia il modello di sviluppo mondiale; frustrazione per quel che si poteva fare e non si è fatto, per un governo sempre più incartato nel day by day, per sindacati divisi da una frattura politico-ideologica, per una opposizione richiamata al dialogo dagli stessi industriali, ma che fa orecchie da mercante. Sono venuti tutti nella terra del presidente Emanuele Orsini (anche se è nato a Sassuolo provincia di Modena): c’erano gli imprenditori e i “professionisti confederali” come li chiamava perfidamente Gianni Agnelli; c’erano grandi banchieri come Carlo Messina che ha difeso il golden power su Banco Bpm e politici all’opposizione come Carlo Calenda che ha invitato la maggioranza a “dire qualcosa anche di destra”; c’era il governo schierato in prima fila, quasi al gran completo. Mancava Giancarlo Giorgetti, quello che tiene i cordoni della borsa, li guidava una Giorgia Meloni pugnace come sempre, ma come perduta in un labirinto di dettagli dietro ognuno dei quali s’annida davvero un diavoletto. L’energia, il tasto più dolente battuto e ribattuto da Orsini (“una situazione insostenibile”, ha detto il presidente); la crescita (dopo due anni di produzione in discesa “l’industria italiana è in sofferenza”); la coperta del bilancio sempre corta anche se con meno buchi e rattoppi; i mancati incentivi agli investimenti; i salari troppo bassi (“è un problema nazionale”); le lentezze europee (su questo ha ragione persino Donald Trump). Poi arriva la mazzata dei dazi al 50 per cento; la crescita, pari allo 0,6 per cento senza tariffe americane, potrebbe scendere verso lo zero, secondo il centro studi confindustriale.
Quello presentato alla tribuna non è un mero cahier del doléances, Orsini ha lanciato l’idea di un “piano industriale straordinario europeo” basato su un New Generation Eu per l’industria con un mercato dei capitali davvero integrato e una deregolamentazione: “Se la Ue riuscisse a diminuire le barriere interne, la sua produzione aumenterebbe del 6,7 per cento pari a mille miliardi”. Roberta Metsola nel suo intervento ha promesso il proprio appoggio, ma non è il Parlamento europeo a dire la parola decisiva. Un piano industriale straordinario ci vuole anche per l’Italia (almeno 8 miliardi di euro l’anno per tre anni) avvicinando così l’ambizioso obiettivo di una crescita del pil pari al 2 per cento annuo. Certo, occorre tener conto del debito pubblico, però si può fare molto di più: “Delle nostre 80 proposte di misure a costo zero ne sono state approvate 8 e 6 sono in corso di approvazione”. Orsini ha dato atto al governo di essersi mosso bene sul piano casa per i neoassunti, sulla cooperazione della Farnesina con il sistema delle imprese, sul ritorno al nucleare, mentre l’Ires premiale è rimasta a corto di fondi. Adesso “la competitività dell’industria italiana ci chiama tutti a un cambio di marcia”. Tre dossier hanno una priorità: l’energia, i sostegni alle imprese, le risorse necessarie. Sul primo, il più urgente, la proposta è sganciare il prezzo dell’energia da quello del gas. Giorgia Meloni rispondendo alle interrogazioni in Parlamento aveva rivolto un appello ai partiti di opposizione per “lavorare insieme”. Ma le opposizioni s’annidano anche nel governo. Giorgetti ragiona su una ricaduta sul bilancio dello stato, l’Enel sul proprio bilancio d’esercizio (Elettricità futura, che riunisce le associazioni di categoria dell’elettrico, ha mostrato segnali di apertura rispetto all’idea di collaborare alla proposta di Meloni sui contratti pluriennali).
La presidente del Consiglio dopo aver ricordato che il governo ha stanziato 60 miliardi di euro per alleviare i costi a famiglie e imprese, ha elencato una serie di strumenti ed escamotage, ad esempio si è resa disponibile a valutare “contratti pluriennali con prezzo fisso concordato tra le parti”. Ma un impegno forte per rivedere radicalmente il meccanismo dei prezzi non c’è. Sugli investimenti Orsini è stato tranchant: “Puntiamo su Industria 4.0, 6.0 chiamiamola come vogliamo purché sia potenziata”. Anche questo mette in allarme il Tesoro. La Confindustria ha chiesto di “spostare risorse del Pnrr non utilizzabili entro metà 2026 a favore degli investimenti produttivi”. Meloni si è detta d’accordo e ha parlato di 15 miliardi di euro potenzialmente disponibili. Giorgetti pensa al rischio per un bilancio di cassa alimentato dai trasferimenti per il Pnrr. Lo stesso piano, del resto, arranca e sta diventando un cruccio, un’ansia a mano a mano che il 2026 s’avvicina. Tutto questo ha lasciato insoddisfatta parte della platea il cui orgoglio era stato rafforzato dal discorso di Orsini. “Pensate in grande, io farò lo stesso”, ha concluso Meloni tra applausi e musi lunghi. L’entusiasmo finisce, le chiacchiere stanno a zero, si torna al lavoro. Come sempre.