Il male, ripensato da vicino

“Io volevo ucciderla. Per una criminologia dell’incontro” è il saggio in cui due criminologi – Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali – spiegano perché nessuno è “una perizia o una sentenza che cammina”

Pubblicato da Raffaello Cortina Editore nel 2022, il volume espone il lavoro, di taglio scientifico e sperimentale, svolto con incontri e ascolto di persone che hanno compiuto violenza contro altre persone. La voce narrante è quella di una donna omicida che, in dialogo con i due criminologi, ci guida nel flusso dei ricordi della sua infanzia, dei legami familiari, degli incontri, per dare un possibile senso al suo gesto.


Li ho uccisi io. “Vedete, è che sono stato io a uccidere tutta quella gente… non è un modo di dire”. È la sorprendente confessione di Padre Brown, il sacerdote detective creato da Gilbert K. Chesterton, in risposta alla domanda su come riusciva sempre a trovare l’assassino. “Io non cerco di guardare l’uomo dall’esterno, cerco di penetrare all’interno dell’assassino […]. Io vi sono sempre dentro e gli muovo le braccia e le gambe; ma io aspetto di essere dentro un assassino; io attendo finché penso i suoi stessi pensieri e lotto con le sue stesse passioni, finché io non mi sono piegato nell’atteggiamento del suo odio che spia e che colpisce, finché io vedo il mondo con i suoi stessi occhi iniettati di sangue cercando la via più breve per giungere alla sorgente zampillante di sangue. Finché anch’io divento veramente un assassino”. Allora “realmente mi sono visto, ho visto me stesso commettere gli omicidi […]. E quando fui perfettamente sicuro di essere io stesso nelle condizioni dell’assassino”. E’ questo “l’esercizio spirituale” che mi si è riformato in mente fintanto che procedevo, pagina dopo pagina, nella lettura di “Io volevo ucciderla – Per una criminologia dell’incontro”, saggio di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali (Raffaello Cortina editore).



In tanti parlano di giustizia e carceri, a proposito e a sproposito. Tra costoro c’è chi – con una ignoranza pari solo alla sua presunzione – sentenzia che per certe persone bisogna “buttare via la chiave”, manifestando una sommarietà di giudizio che, quando si tratti di esseri umani privati della libertà, è un delitto non penalmente ma moralmente grave quanto quello di ridurre al niente un proprio simile. C’è poi chi, di fronte a una criminalità percepita come montante (anche se i numeri dicono altro), pensa solo all’inasprimento delle pene. Ma c’è pure chi al contrario, a discapito della dignità del reo che crede di difendere, pensa che le cause dei delitti siano esclusivamente sociali o patologiche, tanto da escludere un’ultima responsabilità individuale. Ecco, tutti costoro dovrebbero leggere questo libro e sopportarne la fatica, soprattutto psichica, che comporta. La modalità di procedere dei due autori – rispettivamente ordinario e associato di Criminologia presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca; Ceretti è anche coordinatore scientifico dell’Ufficio di mediazione penale di Milano – è scientifica: interviste a persone che si sono macchiate di attacchi contro il corpo di altri, dalla violenza allo stupro all’omicidio. Il risultato va ben oltre l’intento accademico, perché una di queste interviste (undici incontri in carcere trascritti come un lungo pianosequenza di ventuno ore di registrazione) fa sì che l’intervistata scandagli la propria coscienza (quel luogo in cui si ascolta la voce di altri, che significativamente i due criminologi definiscono “parlamento interiore”) sino al punto originante del suo agire e del suo delitto. Ciò che permette a Stefania Albertani (questo il suo nome) di arrivare a dire: “Io non sono una perizia o una sentenza che cammina”. Ciò che permette a Stefania di rispondere all’imperativo iscritto sul tempio di Apollo a Delfi: conosci te stesso. Sino in fondo, senza censure, senza vere o false smemoratezze.



Ho incontrato Adolfo Ceretti a un convegno, abbiamo cenato insieme e, parlando di carceri, gli ho raccontato di quando più di trent’anni fa intervistai per Raidue un ergastolano pluriomicida, noto come “il killer delle carceri”. Il quale in galera, con un collettivo, aveva iniziato un esperimento di “autogestione” di un settore del penitenziario in cui era recluso, e una revisione della sua vita dovuta alla nascita della figlia. Quando mi disse che lui ormai era “un altro uomo” io gli chiesi: “Come può pretendere che le persone che la ascoltano in diretta tv le credano?”. Mi rispose: “Non mi interessa che mi credano. Nessuno sa che cosa può succedere nel cuore di un uomo”. Ceretti mi ascoltava senza battere ciglio. Ho chiesto allora a lui: “Tu pensi che esistano attenuanti tali per cui una persona non sia responsabile dell’atto che ha compiuto?” “No, una persona è sempre ultimamente responsabile di ciò che fa”. “Ribatto: “Altrimenti è impensabile la funzione rieducativa della pena?” “Esatto”. Stefania Albertani ha ucciso la sorella e dato fuoco al cadavere, ha tentato di uccidere padre e madre una prima volta incendiando la macchina, e quindi di strangolare e bruciare la madre. Arrestata in flagranza di questo secondo tentativo, ha sempre negato l’omicidio. L’ha cancellato dalla sua memoria. E’ stata giudicata capace di intendere e volere, ma poi una perizia neuroscientifica le ha diagnosticato una disfunzione al lobo frontale e quindi una seminfermità di mente. E’ stata condannata a vent’anni di detenzione più tre di ospedale psichiatrico. I due criminologi la incontrano la prima volta a dodici anni dall’omicidio. Non hanno intenzioni redentive, ma scientifiche. Ed è questo “distacco” – che non esclude, anzi permette, l’interesse umano per la persona che hai di fronte – e la pazienza che lo accompagna, la condizione che permette il percorso per cui Stefania, passando dalla negazione iniziale alla memoria consapevole del gesto che ha compiuto, ritrova sé stessa.



Forte è nel lettore la tentazione dell’irresponsabilità di fronte al racconto dell’infanzia, del rifiuto della madre (“tu non dovevi nascere”), dell’adolescenza in una famiglia che non la considera, che non la vede (mentre lei chiede solo di essere vista), dell’idolatria per il fratello maggiore (l’unico che gioca con lei) che però sarà poi la causa scatenante della sua rabbia omicida, del padre che mai la costringe a parole ma di fronte al quale lei si sente “liberamente obbligata” nelle sue (non) scelte, della violenza che vede agita in famiglia tra padre e madre, tra il fratello e la sorella maggiore, ma mai su di lei, che si adegua a come vogliono che sia al solo pensiero che quella violenza potrebbe prima o poi riguardarla. Insomma, più leggi più pensi: con una vita così aveva le sue ragioni. I due intervistatori le fanno raccontare con meticolosità il fatto. Non deducono, non affrettano conclusioni, non anticipano spiegazioni, continuano a domandare, si astengono da giudizi tanto apparentemente plausibili quanto affrettati, evitando quella sommarietà che di fronte a questioni gravi è un vero e proprio delitto. Citano anche il Talmud là dove insegna che se noi abbiamo una bocca e due orecchie è in ragione del fatto che dobbiamo ascoltare il doppio di quanto parliamo. Ascoltano e non fanno mai coincidere Stefania né con la perizia che in parte la giustifica né con l’idea che loro possono essersene fatta. E’ lei che, all’inizio di un colloquio, esordisce con la frase che dà il titolo al libro: “Io volevo ucciderla”, “ho dovuto ammettere a me stessa che, in realtà, io volevo farlo”.



Questa è, paradossalmente, l’affermazione in piena autocoscienza della dignità della persona, della sua irriducibilità all’ambiente o alla sua psiche (per capire bene il contenuto drammatico di questa convinzione si legga “Uno psicologo nei lager” di Viktor Frankl). L’ammissione morale della colpa (quella penale era già stata accertata e accettata) è la fine della menzogna, l’uscita dal castello di bugie in cui ci si è rintanati per camuffarsi agli occhi degli altri, fantasie ingannevoli alle quali si finisce di credere, o quantomeno di diventare indifferenti (“era tutto confuso” ripete spesso Stefania), abituandosi al misconoscimento della realtà. E’ indicativo il parallelo di questa trama con quella di un altro libro, anch’esso cronaca di una storia vera di omicidi e roghi familiari, “L’avversario” di Emmanuel Carrère: noi prepariamo il male che facciamo con la menzogna con cui viviamo. Il riconoscimento dell’intenzionalità del proprio gesto, della sua progettazione, della sua pianificazione, è la riconquista della propria libertà. In tutt’altra situazione, ma in un luogo di segregazione molto simile al carcere, Alda Merini rinchiusa in manicomio affrontò un prete, a cui chiese “in che concetto Dio tenesse i poveri pazzi”. La risposta del prelato, la più banale e legalista che si possa immaginare – “Che volete figliola. I pazzi non sono responsabili” – scatenò la sua razionalissima controreplica: “Se Dio ha dato il libero arbitrio perché scegliessimo il bene ed il male, perché ce l’ha tolto con la pazzia?”. Il prete, confuso, se ne andò borbottando.

“Io volevo ucciderla” è il culmine ma non la fine del dialogo con i due criminologi; è il punto di riscatto, l’inizio della fatica della riscoperta di sé. Pagina dopo pagina si vede una persona che riprende letteralmente corpo. Che non dimentica, né mai potrà dimenticare, ciò che ha fatto ma che, questo gli dicono con cognizione di causa i due criminologi, non coincide con il suo gesto assassino, non è quello che ha fatto, è “anche” quello che ha fatto ma non è “solo” quello che ha fatto. Non c’è pietismo, buonismo o perdonismo in queste crude pagine di emersione del male come di una realtà che ci riguarda molto da vicino, c’è molto realismo. Quel realismo che negli anni Settanta del secolo scorso faceva dire a un grande educatore, guardando negli occhi il terrorista rosso seduto di fianco a me in un’assemblea: “Perché la mano di un uomo può essere assassina, senza che il cuore sia assassino”. E’ su questa constatazione che si fonda la scommessa – di cui Ceretti è un antesignano – della giustizia riparativa. La scommessa, almeno quella sul cambiamento della persona, non è mai un puro azzardo, ha sempre delle ragioni. E la giustizia, a dispetto della sua raffigurazione, non può essere cieca, deve vederci bene, deve avere sempre davanti agli occhi l’assassino e la vittima. In un altro libro Ceretti scrive del suo sguardo che, nell’aula di un tribunale, si posò sulle “mani di un condannato”, un ex terrorista. Mani che avevano ucciso. “A fianco di quelle mani vidi personificarsi la vittima, la sua vittima”.



Il tentativo della giustizia riparativa – che, è bene precisarlo, non si sostituisce al processo e all’espiazione della pena, arriva sempre dopo – è ben cosciente che c’è qualcosa di irreparabile, qualcosa che il carnefice non potrà mai restituire alla vittima. E contemporaneamente è consapevole che la giustizia retributiva, per quanto giusta, non copre tutto l’arco possibile della giustizia, non ricuce lo strappo generato nella comunità, non restituisce a ciascuno il suo. Allora si può accettare che una persona passi la vita reclusa, senza mai arrivare a riflettere su che cosa l’ha portata in galera. Oppure si può tentare di ricostruire le relazioni che ci costituiscono, quella con noi stessi e quella con gli altri. Una “criminologia dell’incontro” che non fa sconti, ma offre un cammino in cui il dolore, la memoria, “le briciole dentro una vita persa dentro una bugia”, “la possibilità di progettare un agire responsabile per il futuro”, la capacità di mettersi nei panni dell’altro e anche di guardarsi di nuovo allo specchio (non è un modo di dire, in carcere, per timore di gesti di autolesionismo non ci sono specchi), un cammino in cui tutto questo possa riacquistare un senso, una decenza. E “decente – dice il filosofo israeliano Avishai Margalit – è una società in cui le istituzioni non umiliano le persone”.

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