Il caso Garlasco vede Stasi assolto due volte prima della condanna a 16 anni per l’omicidio di Chiara Poggi, revisionata in Cassazione per lacune. Indizi come orario, scarpe, impronte, bicicletta e comportamento hanno convinto oltre ogni ragionevole dubbio
Chi non ha seguito da vicino il caso Garlasco può legittimamente chiedersi: com’è possibile che un imputato venga assolto due volte e poi, anni dopo, venga condannato in via definitiva? E’ una domanda che sorge spontanea e che, proprio per questo, merita una risposta non ideologica, non scandalistica, ma attenta alla logica del nostro sistema processuale. Serve anche leggere la sentenza 25799 del 2016 della Corte di Cassazione, che spiega perché Alberto Stasi, dopo due assoluzioni, sia stato invece condannato a 16 anni per l’omicidio della sua fidanzata Chiara Poggi.
Il primo punto da chiarire è questo: in Italia, una sentenza di assoluzione può essere impugnata dal pubblico ministero. Non esiste un principio di irreversibilità immediata. L’assoluzione, anche quando pronuncia le parole “perché il fatto non sussiste” (come nel primo grado del 2009), può essere riesaminata. E’ successo con Stasi. La Corte d’Assise di Vigevano lo aveva assolto. La Corte d’Appello di Milano nel 2011 aveva confermato. Ma la Cassazione ha annullato quella sentenza. Perché? Perché ha ritenuto che le motivazioni fossero lacunose, e che il giudice d’appello non avesse valutato in modo adeguato una serie di elementi indiziari.
In altre parole: la Cassazione non ha detto “Stasi è colpevole”, ma ha detto “chi ha assolto Stasi ha sottovalutato, o valutato male, alcuni indizi che potevano condurre a un’altra verità”. E così ha disposto un nuovo processo di secondo grado. Un’altra Corte d’Appello. Altri giudici. Stavolta, con una lettura diversa, si è arrivati alla condanna. Confermata poi in Cassazione. Tutto dentro le regole del gioco. Regole che possono piacere o no, ma che servono a garantire non l’innocenza ad ogni costo, bensì la verità processuale oltre ogni ragionevole dubbio. E quali erano, questi indizi trascurati?
Primo: l’orario del delitto. Stasi aveva detto di essere stato al computer fino a pochi minuti prima di recarsi a casa di Chiara, dove l’aveva trovata morta. Ma le analisi informatiche hanno evidenziato che, in quella finestra temporale, non c’è traccia di digitazioni o operazioni. Quella pausa, secondo la nuova Corte d’Appello, era compatibile con il tempo necessario per recarsi da Chiara, ucciderla e tornare. Non una prova, ma un elemento.
Secondo: le scarpe. Stasi ha detto di essere entrato in casa dopo aver trovato il cancello aperto. Ma sul pavimento c’era sangue ovunque. Eppure le sue scarpe – sequestrate e analizzate – non avevano tracce ematiche. Questo ha spinto i giudici a ritenere che non le avesse indossate durante il sopralluogo, ma piuttosto che fosse stato in casa con altre scarpe, poi mai trovate. Anche qui: non una pistola fumante, ma un’incongruenza.
Terzo: le impronte. In casa sono state trovate impronte di scarpe insanguinate, compatibili con un numero 42. Lo stesso che calzava Stasi. Un’ulteriore compatibilità, non una certezza, ma di nuovo: un tassello.
Quarto: la bicicletta. Alcuni testimoni hanno visto, la mattina del delitto, una bicicletta nera da donna nei pressi della villetta dei Poggi. La famiglia Stasi ne possedeva una, che fu oggetto di analisi solo anni dopo. Sui pedali sono state trovate tracce del dna di Chiara, non necessariamente sangue, ma materiale biologico. Per la nuova Corte d’Appello, un ulteriore segnale di connessione.
Quinto: l’atteggiamento e le omissioni. In particolare, il fatto che Stasi, pur essendo – a suo dire – sconvolto, non chiamò subito i soccorsi e fece telefonate ritenute strane per tempismo e contenuto. Inoltre, aveva cancellato alcuni file sensibili dal proprio computer nei giorni immediatamente successivi al delitto, comportamento che, pur non essendo penalmente rilevante, è stato letto come indicativo.
Nel loro insieme, questi elementi sono stati ritenuti dalla nuova Corte d’Appello di “valenza convergente” e idonei a superare la soglia del ragionevole dubbio. La Cassazione, nel 2016, ha accolto questa lettura e l’ha resa definitiva.
Ma qui si pone la seconda grande domanda: è giusto che il giudizio cambi solo perché cambiano i giudici? E’ una questione delicata, che tocca il cuore del nostro sistema. I giudici non sono infallibili, né intercambiabili. Ma la possibilità di appello e annullamento è prevista proprio per permettere una seconda (e talvolta terza) lettura di fatti complessi. Per evitare che una valutazione affrettata, un’omissione istruttoria o un errore logico impediscano l’accertamento della verità.
Nel caso Garlasco, la Cassazione non ha sostituito i giudici, ma ha detto: “rivalutate, perché così non basta”. E’ un potere forte, ma non arbitrario. E’ lo stesso potere che, in casi diversi, ha portato alla revisione di condanne ingiuste.
Resta il dramma umano. Ma il processo penale – se lo si vuole davvero giusto – deve saper convivere con questa complessità. Perché la verità non è sempre lineare. E la giustizia, a volte, ha bisogno di tempo. Anche di tornare sui propri passi, se serve.
Questo non vuol dire che Alberto Stasi sia certamente colpevole. Vuol dire che, secondo i parametri della nostra giustizia, non è più ragionevole dubitare che lo sia. Nonostante le due assoluzioni. Nonostante tutto.