Come il dramma culturale di Harvard spiega il dramma politico dell’America trumpiana

“Non è la prima volta che i campus diventano teatri di scontro. Ma il problema non si risolve con il pugno di ferro. L’attacco di Trump alle università è, prima di tutto, un attacco al Primo emendamento della Costituzione” Le parole del produttore Francesco Melzi d’Eril

Al direttore – Mi ricordo ancora quando mi arrivò quella busta color crema. “Dear Francesco, it is my pleasure to inform you that you have been admitted to Columbia Law School”. Ce l’ho ancora da qualche parte. Fu uno dei momenti più felici della mia vita. Qualche mese dopo, nel caldo torrido di fine luglio, facevo i primi passi nel campus di New York. Passavo davanti all’imponente Library, neoclassica, dove sventolavano le bandiere blu dell’università. Era il mio primo giorno, con compagni venuti da tutto il mondo. Con alcuni di loro sarei rimasto amico per decenni. Tanti studenti ebrei americani con la kippah, e tanti ebrei non osservanti, spesso molto liberal, da Argentina, Belgio, Israele, Francia. New York è la città con più abitanti ebrei al mondo dopo Tel Aviv: un milione. Columbia ne è sempre stata lo specchio. Abbiamo passato un anno a studiare, discutere, amarci, crescere. Ricordo le cene a Morningside Heights, a casa della Professoressa Ginsburg, figlia della leggendaria Ruth Bader, anche lei giurista di fama. Tappeti persiani, biblioteche, conversazioni intense: sembrava un film di Woody Allen. Era l’America di fine secolo, pre-11 settembre. Un’America più gentile, meno arrabbiata. Un mondo senza confini. Oggi, ventotto anni dopo, ogni mattina provo un dolore fisico leggendo le notizie che arrivano da oltre oceano.

Ma l’annuncio che più mi ha sconvolto è stato l’annullamento dei visti per tutti gli studenti internazionali di Harvard. Circa 6.800 ragazzi, un quarto dell’intero corpo studentesco. Un colpo di penna, firmato Kirsti Noem per conto del Presidente Trump. Ho pensato subito a loro. Ai loro sogni, al sacrificio delle famiglie, ai debiti, all’orgoglio di un’ammissione Ivy League. Migliaia di vite sospese. La giustificazione ufficiale: l’incapacità dell’università di garantire sicurezza agli studenti, in un clima di antisemitismo. Ma la verità è un’altra: si tratta di una vendetta politica. Harvard non si è piegata alle pressioni dell’amministrazione per consegnare dati sugli studenti e adeguare l’insegnamento alla dottrina MAGA. E allora, punizione. Per Trump, le università d’élite sono covi di liberal, di sovversivi. Devono piegarsi o sparire. Che alcune si siano lasciate sedurre dalla cultura woke è vero. Quel pensiero unico, allergico al dissenso, ha fatto danni enormi. Ha contribuito a generare la reazione furiosa del trumpismo. Se oggi siamo qui, è anche per colpa loro. Ma cosa c’entra l’antisemitismo con la cultura woke? C’entra. Negli ultimi mesi nei campus – Columbia compresa – si sono vissute tensioni durissime. Studenti pro-Palestina, studenti ebrei pro-Israele, ebrei liberal scioccati dai bombardamenti. “Not in my name”, dicevano.

Non è la prima volta che i campus diventano teatri di scontro. Pensiamo al Vietnam, al massacro di Kent State. Ma non sono mai stati un pericolo per l’ordine costituito. Piuttosto, un termometro sociale. Il dolore degli studenti ebrei va compreso. Il loro diritto a studiare in un ambiente sicuro va garantito. Ma il problema non si risolve con il pugno di ferro. L’attacco di Trump alle università è, prima di tutto, un attacco al Primo emendamento della Costituzione. Quel principio che garantisce libertà di parola, di stampa, di riunione. E’ il cuore della democrazia americana. E per estensione, dell’Occidente. Se lo Stato può decidere cosa si insegna, chi può parlare, chi può studiare, allora non siamo più nella terra della libertà. In questi mesi, lo abbiamo visto: cause miliardarie contro i giornali liberal, minacce alle grandi Law Firm, ora questo attacco frontale al mondo accademico.

E’ un’escalation che dovrebbe allarmare chiunque creda ancora nell’America come faro di libertà. Come sempre, ci sono istituzioni che resistono – Harvard – e altre che si piegano, come lo Studio Legale Paul Weiss, che ha patteggiato con l’amministrazione pur di non perdere clienti. E poi c’è la Columbia, che ha permesso gli arresti in campus degli attivisti pro-Palestina. Il sistema universitario americano, con tutte le sue contraddizioni (a partire dalle rette folli), ha rappresentato un motore insostituibile di eccellenza. Ha accolto menti brillanti in fuga da regimi autoritari: Einstein a Princeton, Oppenheimer a Berkeley. L’America ha vinto anche grazie a loro. Negli ultimi trent’anni, la rivoluzione tecnologica è partita da lì. Da studenti stranieri che hanno immaginato il futuro: da Musk a Thiel, e tantissimi altri. Bloccare i visti significa spezzare quella catena virtuosa. Un suicidio strategico. Punire indiscriminatamente il talento, ovunque nasca, qualunque sia la sua religione o nazionalità, è un atto cieco. Che renderà l’America meno libera, meno innovativa, meno ammirata. Congratulazioni. A chi?

Francesco Melzi d’Eril


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