Ad Aurelio nun se cumanna

Il segreto di De Laurentis è sempre stato uno: saper fare a meno di tutti, persino di Antonio Conte. Dopo aver conquistato quello nazionale si prepara al palcoscenico europeo

L’imitazione che ne fa Max Giusti al “GialappaShow” è particolarmente riuscita perché nei panni del produttore hollywoodiano che dà del tu a Martin Scorsese ma a De Niro in fondo preferisce Massimo Boldi, fotografa la dimensione glocale, una volta si sarebbe detto così, del nostro eroe. Aurelione, per brevità ADL. Spavaldo, insolente, appassionato, un provinciale alla conquista del mondo – qui siamo al ritratto di Giorgio Bocca – sospettoso ma permeabile al nuovo. L’anno scorso, in viaggio per una prestigiosa trasferta di Champions, sull’aereo della squadra ospitò il rapper Geolier, reduce dal secondo posto a Sanremo, e un paio di albergatori di Posillipo suoi amici, a cui qualche mese prima avrebbe voluto “vendere” il Bari se fosse salito in A. Non se ne fece nulla, perché all’ultimo istante passò il Cagliari di Ranieri, ma gli amici sul volo tornarono buoni perché le mozzarelle che avevano imbarcato erano davvero squisite. Mentre Geolier, un paio di file dietro, fumava serenamente. Le trasferte con Aurelione sono così, un po’ come le cene della Casa delle Libertà negli spot di Corrado Guzzanti, fanno tutti un po’ come ca… gli pare. A patto di avere la benedizione del padrone, ovviamente.


Aurelio De Laurentiis, stavolta per dirla più con Malaparte che con Bocca, è un arcitaliano. Personalità complessa, contraddittoria, racchiude i nostri pregi e difetti. Camaleontico, no. Non è lui che si adatta ai gusti e alle esigenze degli altri, ma gli altri che, se vogliono sopravvivere, devono adattarsi a lui. Chi può, scappa. Se cambi sette allenatori in sette anni (gli ultimi, col solo Spalletti capace di resistere due stagioni, poi è scoppiato e pur di liberarsene si è accollato la Nazionale meno talentuosa degli ultimi vent’anni), significa che qualcosa nel modo di relazionarsi al prossimo non funziona. Ma guai a ricordarglielo, tanto sarebbe fatica sprecata. Come quasi tutti gli uomini di successo, figuriamoci chi ha costruito le sue fortune e la sua riconoscibilità nei due mondi che per antonomasia gonfiano l’ego, gli spettacoli e il calcio. ADL sa sempre cosa fare e cosa dire. Chi ha provato, invano, a gestirne e, talvolta, a rendere più sobrie le sue uscite pubbliche, racconta di lui che si sente il miglior addetto stampa di se stesso. Se dovessimo individuare un corrispettivo negli altri sport, diremmo il presidente della Federtennis Angelo Binaghi. Entrambi viaggiano sempre con una abbondante dose di autostima in valigia, peraltro in gran parte giustificata dai risultati, che regola ogni loro relazione, umana e professionale. Il modello, per entrambi, è quello del Marchese del Grillo: loro sono loro, noi non siamo un…

Ci siamo capiti. Aurelione, però, è più lunatico. Celebri i suoi up and down. I giornalisti sportivi che in questi vent’anni ne hanno accompagnato le gesta, soprattutto chi talvolta ha osato criticarne una scelta o un’esternazione, ne sanno qualcosa. Quando è up, De Laurentiis dà sempre il titolo, come si dice in gergo, anzi più d’uno. Memorabile, a proposito, fu l’inaugurazione di Cinecittà World, il parco divertimenti alle porte di Roma realizzato con Luigi Abete e Diego Della Valle. Era il 2014. Il Napoli aveva appena vinto la seconda Coppa Italia della sua gestione e sgomitava per salire ai vertici, chiuso dalle grandi famiglie italiane che ancora dettavano legge (gli Agnelli e i Berlusconi, Moratti aveva appena ceduto) e dalle proprietà straniere che cominciavano ad affacciarsi. ADL era in una forma araldica, a margine concesse un’intervista calcistica a un paio di cronisti, ne venne fuori un j’accuse al Palazzo, sparò a pallettoni contro tutti e tutto, infierì particolarmente sulla Melandri e la sua legge, che negli anni si sarebbe rivelata uno dei suoi bersagli preferiti, ovviamente sempre con l’approccio del dirigente illuminato costretto a misurarsi, ahilui, con “colleghi” mediocri, mezze figure che non lo capiscono, non gli danno retta e fanno il male del calcio italiano (in Lega ormai sono abituati ai suoi show).



Qualche collega, negli anni, ci ha rimesso. Anche in salute. Una volta additò il cronista della Gazzetta in conferenza stampa, praticamente dandogli dello juventino, ergo nemico del Napoli, e il poveraccio si ritrovò, ripetutamente, con le ruote dell’auto tagliate e la carrozzeria danneggiata. Un’altra sera, all’ingresso della Filmauro in via XXIV maggio, a un passo dal Quirinale, prese a calci nel sedere un giovane cronista (sempre della Gazzetta), solo perché lo aveva trovato lì (la cosa poi si risolse con una telefonata di scuse). Allergico, diciamo così, a chi la pensa diversamente. Come tanta imprenditoria italiana. Gli unici sondaggi che tollera, ADL, sono gli stessi che un noto costruttore usava suggerire al suo giornale: “Sei d’accordo o sei molto d’accordo?”. Certamente, non si può essere in disaccordo sul valore del dirigente calcistico. Con il Napoli, De Laurentiis è riuscito a trasformare un principio contabile cui per anni abbiamo associato i concetti di sacrifici e privazioni – la mitologica autosufficienza – in un case history di enorme successo, fatto di gestioni sostenibili, acquisti mirati, partecipazioni alla Champions, e ai suoi ricavi, divenute regolari. Un caso unico nel panorama italiano, con pochi eguali in Europa (il Bayern Monaco ha un modello di business simile, ma con colossi come Audi e Allianz a sostegno). Certo, nell’impresa parecchio aiutato dalle plusvalenze, per un valore di 750 milioni di euro in vent’anni. Strumento finanziario eticamente discutibile (e, quando si esagera, perseguibile dalla giustizia sportiva: sulla testa del nostro pende ancora l’affaire Osimhen), ma alzi la mano chi non ne abbia beneficiato in Italia per mettere a posto almeno un bilancio. Fino all’avvento del Napoli di ADL, nel calcio italiano un club che si autofinanziava poteva al massimo vivacchiare, gli era concesso giusto un exploit ogni tanto (una Coppa Italia, un piazzamento in Champions), ma la vittoria che poteva sbandierare era solitamente quella dei conti in ordine. Aurelione, invece, è riuscito nell’impresa di vincere trofei importanti senza indebitarsi. Poi è arrivata anche l’Atalanta dei Percassi (ma con i soldi americani).



Il Napoli di ADL è cresciuto con gradualità, senza che l’impresa calcistica gravasse mai su quella cinematografica (anzi, da un certo punto in poi, sono stati i film a beneficiare dei ricavi del club), senza appesantire di ruoli e stipendi rinunciabili la struttura societaria (e pazienza se il Napoli non è ancora una media company come altri club), sempre stando attento a che il monte-ingaggi della squadra non lievitasse. Il resto, lo hanno fatto alcune grandi intuizioni calcistiche (giocatori, tecnici, dirigenti presi che erano in rampa di lancio e restituiti al mercato che erano lanciati in orbita) e una certa caparbietà nel seguire la propria strada e perseguire traguardi e nemici. Del resto, come recita il monito scolpito sullo Chatrier, il campo principale del Roland Garros, “la vittoria appartiene ai tenaci”. E tenacemente, De Laurentiis è andato dritto, incurante delle critiche che pure in certe stagioni sono state feroci, imponendo a una piazza sentimentale che ancora si commuoveva al ricordo di Maradona e definiva Altafini core ’ngrato, un ricambio – nella squadra, in panchina, nello staff tecnico, nei gangli societari – quasi ossessivo. Grandi centravanti, fantasisti, pilastri della difesa, geni della tattica: presi al momento giusto, messi nelle condizioni di lavorare al meglio, sfruttati per quello che servivano, lasciati andare senza troppi rimpianti. Tutto nel giro di 12, o al massimo 24 mesi. Talvolta, destabilizzando ambiente e squadra, come accaduto l’anno scorso nel post Spalletti, ma anche in quel caso Aurelione si è armato di santa pazienza, convinto, come lo era il grande Eduardo, che prima o poi ’a nuttata sarebbe passata.


Ecco perché ADL non perderà il sonno nemmeno per Antonio Conte. D’altronde, l’uno non ne può più di tenere la bocca chiusa, evitare di dire la sua su questa o quella scelta di formazione. Ha fatto uno sforzo enorme per rispettare le consegne una stagione intera. L’altro, come fa solitamente quando vince, vuole monetizzare. E la Juventus è pronta a garantirgli il doppio dello stipendio. Avevano, hanno idee e visioni di calcio, e probabilmente di vita, diverse. Lo hanno sempre saputo. Se lo sono detto, serenamente, tra un brindisi e l’altro nelle ore della festa. Anzi, delle feste. Nella pancia del Maradona e nel ristorante del “Regina Isabella” a Ischia. De Laurentiis sa, essendo sempre dotato di quell’autostima di cui sopra, che il giochino funzionerà anche con Massimiliano Allegri, o chi per lui. Lo pagherà profumatamente, gli darà quello che chiede (per un anno, poi ne riparleranno), lo farà sentire importante (quanto basta, il più importante a Napoli si sa chi è), sfrutterà la sua voglia di riscatto, e poi chissà, avanti un altro. Tutti sono importanti, nessuno è insostituibile. A parte lui, ovvio.



Solo che stavolta l’asticella si alza, innanzitutto per Aurelione. Dopo il record di bilanci in utile, l’incremento dei ricavi commerciali e da stadio, gli investimenti sulla squadra, il Napoli è chiamato a migliorare il rendimento delle proprie infrastrutture: in ballo ci sono la realizzazione di un nuovo centro sportivo e il restyling del Maradona. Sul campo, invece, dopo due scudetti in ventiquattro mesi, l’orizzonte deve allargarsi. La prossima campagna europea è la sfida cruciale che lo attende, per il salto di qualità anche a livello internazionale. Il Napoli di De Laurentiis non è mai andato oltre una semifinale di Champions League. Nella coppa dalle grandi orecchie, vuole recitare un ruolo da protagonista. Di nuovo in volo nei cieli europei, con un De Bruyne in più e qualche mozzarella in meno, magari.

Di più su questi argomenti:

Leave a comment

Your email address will not be published.