Trump, Xi e l’arte cinese dell’inganno

Il gusto Ming per i raggiri. I migliori sono quelli in cui il truffatore finisce truffato. Appunti sulla trattativa fra Pechino e Washington

Non c’è un corrispondente cinese di “a caval donato non si guarda in bocca”. Loro hanno il detto: “Vendi il tuo cavallo prima che muoia”. E’ quel che ha fatto il Qatar. L’emiro aveva due vecchi 747 con interni superlusso. “Stanza da letto con tessuti della più alta qualità”, “sedili in pelle e moganature squisite”, un bagno che “è un’opera d’arte”, diceva la brochure. Pezzi da collezionisti. Ma impossibili da sbolognare. Boeing ha smesso di produrre quel modello. L’ultimo era stato assemblato nello stabilimento di Everett, nello stato di Washington, nel 2022. Difficile, costosissimo trovare i pezzi di ricambio. Proibitivi i costi di manutenzione. Si valuta che il prezzo di mercato del velivolo usato sia di 150-180 milioni di dollari. Ma i costi di operazione equivalgono o addirittura superano il costo d’acquisto. Operare l’Air Force One costa 134 milioni l’anno. Uno dei due jet 747 il Qatar l’aveva regalato al presidente turco Erdogan, in cambio dei “servizi resi”. L’altro restava invenduto, sul gobbo da ormai cinque anni. Finché hanno avuto la brillante idea di cederlo a Donald Trump. “Regalarlo gratis”, dice Trump. In cambio di qualcosa, evidentemente. Nessuno regala niente per niente. Lo sa bene la saggezza popolare. “Gn’a el caa fa andaa la cua per nagott”, neanche il cane fa andare la coda in cambio di nulla, soleva dire la mia suocera bergamasca. L’interrogativo è: chi dei due, il Qatar o Trump, s’è fatto fregare?



Il duello tra due che cercano di imbrogliarsi l’un l’altro si fa più interessante quando è ad armi pari. Quando, come nel sumo giapponese, un colosso mette fuori pista un altro colosso perché è quest’ultimo a sbilanciarsi da solo mentre lo sta attaccando. Quando un furbacchione di tre cotte riesce a imbrogliare un altro furbacchione, attrezzato quanto lui. La tradizione letteraria cinese è piena di truffatori truffati dalle loro vittime, di ladri derubati, di malintenzionati beffati da altri malintenzionati. La raffinatezza è tutta nel battere l’avversario al suo stesso gioco. Nel farlo cadere nella trappola che lui stesso era intento a tendere. Quando si incontrano due marpioni vince però quello che ha più stile.

Il seicentesco Pian jing, ovvero il Libro degli imbrogli, è uno dei classici della letteratura cinese. Espone in 24 sezioni un catalogo di storie di truffe, imbrogli, complicati negoziati d’affari, astuti inganni di ogni genere. Ognuno dei racconti è seguito da un commento in cui si trae la morale della favola. Dell’autore, Zhang Yingyu, si sa quasi nulla. Il commento ha toni moralistici. Ma è curiosamente equanime nell’attribuire i torti fra truffato e truffatore. Spesso il biasimo viene attribuito in misura maggiore all’ingenuità e dabbenaggine della vittima, piuttosto che all’avidità e malizia dell’imbroglione. La raccolta è stata presentata, alternativamente, come un vademecum per evitare di venire truffati, o come un manuale di istruzione per aspiranti truffatori. L’abbiamo letto in una traduzione inglese, dottamente annotata, a cura dei sinologi della British Columbia University Christopher Rea e Bruce Rusk (The Book of Swindles. Selections from a Late Ming Collection, Columbia University Press 2017). Le storie più belle e originali sono quelle in cui un malintenzionato che vuole derubare un altro viene a sua volta derubato. Non si tratta di furbacchioni intenti ad approfittarsi di poveri ingenui, ma di duelli ad armi pari, tra individui armati di uguale perizia, spesso tra colleghi mercanti o mediatori. Subito dopo mercanti e mediatori, a imbrogliarsi l’un l’altro, attratti dal miraggio della promozione, sono i candidati agli esami imperiali, l’élite della élite del sistema meritocratico. L’alternativa per i trombati è darsi al commercio e agli affari. Non è il truffato a meritarsi la simpatia del lettore, è quello dei due che tesse meglio la sua rete.



Come i picari del Siglo de oro spagnolo, i quali ci danno la massima soddisfazione quando beffano ricchi e signori, non altri poveracci. Lo stesso nelle storie del Boccaccio. Dante aveva messo Gianni Schicchi all’inferno, nel girone dei barattieri e dei truffatori. Ma Puccini ne ha fatto un eroe spassosissimo. Il “babbino caro” riesce a beffare gli smaniosi ed ipocriti eredi del defunto Buoso Donati lasciandoli a bocca asciutta e intestando, con un falso quanto inoppugnabile testamento, tutti i beni alla propria figliuola da maritare. I beffati devono starsene zitti e buoni, perché complici come sono del falso, rischiano altrimenti il taglio della mano. Nella cultura mercantile, ma ancora contadina, della Firenze del 1200, l’inganno è il modo in cui i mezzadri si difendono, truccando i pesi, dalla cupidigia dei proprietari. Nella cultura dei contastorie cinesi, l’imbroglio è segno di astuzia, la battaglia non è di principi morali ma di strategia.



Montesquieu, che in Cina non era mai stato, racconta che lì i compratori devono “portarsi appresso la propria bilancia, perché ogni mercante ne ha tre, una pesante per comprare, una leggera per vendere, e una giusta per non farsi fregare” (Spirito delle leggi). Gli stereotipi si sprecano nell’immaginario occidentale. Er cinese è buggiardo, ripeteva a tutt’andare Antonello Trombadori, padre di Duccio, uno della cerchia ristretta di Togliatti (per un certo tempo fu il responsabile della sicurezza dei dirigenti del Pci). E’ umano vedere la pagliuzza e non accorgersi della trave. Trascurava che i cinesi mentivano con stile antico, inarrivabile per i sovietici. La sincerità dovrebbe essere, a prima vista, uno dei valori fondanti dell’America. Ai bambini a scuola si insegnava (non so se lo si faccia ancora) di George Washington il quale, pur di non mentire al padre irritato perché è stato abbattuto il vecchio ciliegio cui era affezionato, ammette di essere stato lui a tagliarlo. Eppure Trump è il presidente americano che ha fatto l’uso più spudorato delle bugie. Con fantastica noncuranza. Riesce a dire qualsiasi cosa e poi il contrario poco dopo, come se niente fosse.



Il gioco non consiste nel “vendere il Colosseo”, rifilare la patacca. E’ più raffinato. E, al tempo stesso, più terra terra. Consiste semplicemente nell’appropriarsi del denaro o dei beni altrui. Un ruolo predominante ha quel che chiameremmo “millantato credito”, il reato previsto dall’articolo 346 del codice penale italiano (e recentemente derubricato) che consiste nel vantare un’influenza inesistente o esagerata presso un pubblico ufficiale o un pubblico impiegato per ottenere denaro o altri vantaggi. Sono intimo, parente, del tal dei tali, quindi puoi affidarti a me per menare a buon fine il tuo affare. Funziona ancora così a tutte le latitudini. Vantare entrature col titolare della Casa Bianca e la sua famiglia (che si trattasse di Biden o si tratti di Trump), o con gli alti gradi della nomenclatura cinese, con questo o quel ministro più o meno di passaggio in un sistema democratico, restano il grimaldello preferito. La refurtiva in questo caso è il prezzo della mediazione. Nel Libro delle truffe, anche giudici e mandarini onesti talvolta si prestano inconsapevolmente al gioco. Se non sono loro ci pensano i loro subordinati. I governatori e i giudici imperiali, alti magistrati e prefetti, venivano inviati di regola in regioni distanti da quelle di origine, per evitare che fossero traviati dalle “conoscenze”. Servivano di norma per tre anni, per poi venire mutati di sede. Niente mandati multipli. Ma il personale è fisso e locale. Il che fa dello yamen, l’ufficio amministrativo dei mandarini, “il covo degli imbrogli”, da evitare a ogni costo. Rivolgersi al labirinto della giustizia è controproduttivo, spesso più dispendioso del maltolto che si vorrebbe recuperare. In uno dei racconti del Libro degli imbrogli si fa abbindolare persino l’incorruttibile e leggendariamente perspicace giudice-detective Bao (reso immortale nei romanzi del diplomatico e sinologo olandese Robert Van Gulik).

Neanche l’imperatore è al di sopra di ogni sospetto. I due massimi imperi dei nostri tempi, quello cinese e quello americano, si somigliano anche in questo. Trump e Xi Jinping hanno in comune l’avercela con la corruzione. Ma per corruzione intendono quella dei nemici politici, mentre tendono a condonarla a sé stessi e, soprattutto, agli amici politici. La corruzione che prendono di mira ha un preciso colore politico. Corrotti per antonomasia per Trump – era uno dei leitmotiv della sua campagna elettorale – sono gli avversari e i democratici, in generale chi gli mette i bastoni tra le ruote. Il Terzo Reich era l’impero della corruzione. Ma per i nazisti, e i loro alleati conservatori, corrotta per definizione era la democrazia di Weimar come corrotti nel midollo, per fatto razziale, venivano additati gli ebrei. La tecnica dell’inganno ha un’esplicita assonanza con la grande tradizione cinese delle strategie militari. L’arte dell’imbroglio è la prosecuzione dell’arte della guerra con altri mezzi. E viceversa. “Il mercato è un campo di battaglia”, suona un proverbio cinese. “Il vertice dell’abilità non è riportare cento vittorie in cento battaglie, è mettere sotto il nemico senza combattere”: questo il succo degli insegnamenti di Sun Tzu. “Per salvare Zhao, assedia Wei”, preserva il tuo stato da chi lo sta minacciando, aggredendo quelli da cui il tuo nemico è minacciato. “Attendi con calma che il nemico sia esausto”. “Saccheggia la casa che già sta bruciando”, cioè approfitta della crisi altrui. “L’incendio sta a guardarlo dalla riva opposta [del fiume]”.”Per catturare [il nemico], prima lasciagli via libera”. “Rinuncia al pruno per salvare il pesco”, cedi sull’obiettivo di minor valore per assicurare quello più importante. “Il miglior stratagemma è la fuga”, non vergognarti di battere in ritirata, se ciò ti consente di acquisire maggior potere negoziale. Sono alcuni dei Trentasei stratagemmi, un altro degli innumerevoli trattati antichi di saggezza militare. Si possono estendere, ed è accaduto spesso, all’arte del negoziato commerciale, dell’astuzia nella guerra economica. Come la guerra guerreggiata, è un gioco a somma zero, nel quale uno vince e uno perde. Ma in cui talvolta capita anche che finisca con reciproca soddisfazione sia per l’imbroglione che l’imbrogliato. E’ un tema ricorrente nella fiction cinese.


Non siamo in grado di prevedere come andrà a finire il braccio di ferro tra l’America di Trump e la Cina di Xi. Hanno cominciato facendo la voce grossa, imponendosi l’un l’altro dazi assurdi. Poi sono scesi a più miti consigli e hanno cominciato a trattare. L’impressione è che a fare marcia indietro, a blink first, a sbattere per primo le ciglia, come dicono gli americani, sia stato Trump. Per cause di forza maggiore, la sua linea iper aggressiva stava sconvolgendo i mercati finanziari, rischiava di mandare a rotoli la crescita americana quanto quella mondiale, di fare più danni di quanto potesse offrire un eventuale ridimensionamento delle esportazioni cinesi. Trump si è rivelato un campione assoluto del “contrordine compagni”. In tutti i sensi e in tutti i campi. Si è sfilato dal negoziato per la pace in Ucraina. Non ci tiene più a essere il protagonista di una composizione del conflitto in medio oriente. Che volesse fare affari con l’Arabia saudita e gli altri petrolieri del Golfo era scontato. La novità è che sembra intenzionato a fare affari, o almeno a negoziare anche con Teheran, il nemico giurato dell’Arabia saudita. Ha dichiarato a sorpresa, senza dirlo a nessuno, una tregua unilaterale con gli Houthi yemeniti. Che volesse fare affari, non la guerra, con Putin era evidente già da molto prima. Aveva cominciato col voler escludere del tutto dalla possibile mediazione i più diretti interessati, l’Ucraina e l’Europa. Ora vorrebbe che se la cavassero da sole.



Ma la svolta più clamorosa è con la Cina. All’improvviso, non si parla più di decoupling, disaccoppiamento delle rispettive economie. Si è rivelato più difficile che separare chirurgicamente gemelli siamesi che condividono la stessa circolazione. Il rischio è di ammazzarli entrambi. I dazi al 185 per cento hanno prodotto un effetto esattamente contrario a quello desiderato: si sono impennate le importazioni in America di prodotti cinesi, perché gli importatori si sono precipitati a fare scorte prima che i dazi entrassero in vigore. I dazi sulle carabattole spedite in pacchettini, che rappresentano metà circa delle esportazioni cinesi, risultano inapplicabili, hanno quasi paralizzato il commercio postale. L’Europa, che come la nottola di Minerva si alza in volo a cose fatte, non trova di meglio che imitarli a tempo scaduto. Ha appena deciso di far pagare 2 euro di dazio su ogni sciocchezzuola spedita da Temu o Alibaba. La battuta di Trump sulle bambine americane che non hanno bisogno di più di una bambola a testa ha inferocito le famiglie. Gli embarghi sull’esportazione in Cina di chip e tecnologie avanzate ha spronato i cinesi a farsele da soli. Non va meglio per i prodotti seri. La minaccia di bloccare per ritorsione l’esportazione delle materie prime necessarie all’hi-tech hanno fatto venire i brividi alla Silicon Valley. Et pour cause. Tanto per dirne una, la Cina processa oltre il 90 per cento delle “terre rare” indispensabili per auto elettriche, computer cellulari, chip per l’intelligenza artificiale, e anche alle industrie della difesa, a cominciare dai satelliti e dai missili. Portare la guerra commerciale alle sue estreme conseguenze rischia di fare più danni di una guerra vera.


Sono condannati a mettersi d’accordo, se non vogliono farsi del male. In che termini, resta tutto da vedere. Gli obiettivi veri non sono necessariamente, anzi quasi mai, quelli dichiarati. Da piccolo mi avevano insegnato che se vuoi avere successo in una trattativa al bazar, devi guardarti bene dal rivelare subito qual è il tappeto che ti interessa davvero, ma far finta che te ne interessi un altro. Se l’obiettivo di Trump era far grande l’America forse (il forse è assolutamente d’obbligo) si è accorto che la stava rendendo più piccola. Se era fare cassa, far pagare con i dazi al resto del mondo le riduzioni delle tasse che ha promesso agli elettori, appare già fallito. Il vistosissimo contrordine compagni con cui annuncia ora di voler tassare di più i ricchi suona come volersi mettere il cuore in pace almeno su questo. I cinesi non paiono disposti a farsi spennare. E nemmeno gli europei. A meno che, dio non voglia, i due litiganti più forti non si mettano d’accordo a danni di un terzo. Due in combutta contro uno. Come succede in molte delle storie cinesi di imbrogli. O come prescrive il manuale antico dei Trentasei stratagemmi: salvare il regno di Zhao mandando truppe contro il regno di Wei. Non perché Wei ce l’abbia con te (anzi potrebbe esserti amico, magari darti una mano a scoraggiare le prepotenze ai tuoi danni). Ma solo perché al momento sembra il più debole dei tre, è frastornato dal vacillare della sua tradizionale alleanza con il tuo nemico, non sa bene che pesci prendere.

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