Senso fondamentale, custode di memoria, emozione e identità. Il rischio di dimenticarlo, nell’epoca dello smartphone, mondo immateriale comandato dalle dita. Così la pelle diventa un palinsesto
Tutti i giorni, da una ventina d’anni, gli occhi domandano alle dita di allargare o restringere la meno fisica delle realtà, quella rappresentata sullo schermo di un dispositivo elettronico. Tutti i giorni si perpetua il paradosso per cui manipoliamo, grazie al touchscreen, una realtà tanto meno tangibile quanto più è subordinata al gioco delle dita. Più la tocchiamo virtualmente, ingrandendo nei dettagli le immagini, rallentando o accelerando la riproduzione dei filmati, più la realtà nella sua materiale concretezza si fa untouchable. Praticanti di un paradosso cui solo gli snob o gli ostinati si sottraggono, siamo divenuti con quotidiana assiduità – la più spontanea per chi ha visto la luce in questo secolo – i riconciliatori di due sensi che furono persino conflittuali: il tatto e la vista. L’uno ha goduto di sporadici successi, di occasionale egemonia però patendo condanne e diffidenze; la seconda è stata invece regina dei filosofi, dei mistici, parente stretta della luce, troneggiante nei vocabolari dell’intelligenza se è vero che ogni teoria sgorga dal verbo greco theorein, contemplare, al pari di altre parole affratellate che hanno formato la storia del pensiero: come intelletto, o come idea, sempre dal greco idein, vedere (con gli occhi della mente).
Aristotele, ipse dixit, sostenne nella Metafisica che la vista è il senso preferito perché permette all’uomo la conoscenza più chiara ed esaustiva. Il tatto invece necessita cautela: specie se inclina al godimento è rischioso o pernicioso. L’attuale tecnologia, ignorando le pregiudiziali, ha addomesticato le dita al servizio degli occhi e questi ha reso complici dei polpastrelli, con una integrazione sensoriale che s’estende all’udito e lascia esclusi dinanzi allo smartphone – almeno per ora – solo il gusto e l’olfatto. “Negli ultimi due decenni lo sviluppo di tecnologie che riproducono la sensazione tattile è salito alle stelle sotto forma di schermi e interfacce tattili sempre più complicati e sottili, giochi per computer e orologi che ci permettono di condividere i nostri battiti cardiaci con gli altri, giocattoli erotici che funzionano a distanza, forme di media che consentono la teledattilità e persino arti protesici che ripristinano le sensazioni”: scrive così Pablo Maurette, autore di un libro uscito prima nella madrelingua, lo spagnolo, poi in inglese e adesso in italiano: Il senso dimenticato. Breve storia del tatto, edito dal Saggiatore, è un breviario immersivo sull’argomento, uno scandaglio tra letteratura, arte e filosofia.
Ci si è divertito Maurette, argentino bonaerense, docente alla Florida State University e conoscitore del pensiero rinascimentale con un trascorso di studi in Italia (come testimonia l’autotraduzione del volume nella nostra lingua). Si è divertito come Ismaele, il marinaio del romanzo Moby Dick, quando immerge le mani nel serbatoio di spermaceti, l’olio fragrante appena estratto dalle balene cacciate, per lasciarsi andare a un’estasi tattile che la prosa di Herman Melville restituisce: “Ismaele si abbandona completamente al compito di impastare e scoppiare i morbidi, delicati, globuli di tessuti infiltrati che esplodono, succosi e opulenti come acini d’uva. Il sottosuolo incontaminato emana l’odore delle violette primaverili e Ismaele è trasportato in una ‘valletta muschiata’, che funge sia da locus amoenus che da fonte battesimale, un luogo in cui l’anima trova il suo riposo e in cui il male non ha possibilità di azione”.
E’ questa una delle circostanze in cui il tatto, senso ancillare della vista o suo supplente, come accade tra i ciechi, finisce per trionfare grazie a una sensualità più morale che lasciva, perché affratella i marinai intenti alla “spremuta”. Un sentimento che fugace svanisce giacché presto gli uomini a bordo “torneranno a dividersi” ricadendo “sotto l’odioso incantesimo” del capitano Achab, ma quella fraternità momentanea è stata possibile grazie al “con-tatto”. Melville, che maneggia la prosa come Ismaele l’olio del cetaceo, estrae dalla densità delle parole “il nettare della poesia e, così facendo, ci stringe la mano”. Chi non ha mai spremuto le balene, leggendone, ricercherà comparabili sensazioni nelle proprie biografie e la nostra rimanda alle cucine di certe mattinate senza scuola, quando una zia o una nonna sbucciavano piselli con la stessa, distante intensità di sguardo con cui sgranavano il rosario nei giorni della Supplica alla Madonna di Pompei, sicché un baccello dopo l’altro surrogavano le Ave Maria con lontani racconti di guerra che l’azione ripetitiva delle dita doveva in qualche inconscia maniera riportare alla memoria mentre i piccoli ascoltatori, privi ancora di ricordi, provavano a imitarle con maldestre mani che mai avrebbero acquisito pari dimestichezza. Né coi baccelli né con il rosario.
Questa storia del tatto, ancorché “breve”, fomenta in duecento pagine deliri affabulatori di scrittura e di lettura, trapassando per esempio dall’Ulisse omerico a quello joyciano in una serie di saggi che collegati costituiscono un lungo piano sequenza, un cinema di rivalutazione per uno dei cinque sensi elevandolo a principe sugli altri seppure quasi in sogno. Chissà se è vero che l’Ulisse dublinese possa essere “l’esempio più chiaro (senza dubbio il più famoso e influente)” della “natura epidermica del romanzo”, dove la pelle della pagina è intrisa di ogni ben di dio di immagini ed emozioni e la profondità consiste in questa esposizione tattile; sicuramente è vero che l’Ulisse originale tornato a Itaca viene veduto ma non identificato. Lo riconosce, perché lo sente in modo più sottile, il cane Argo come forse un giorno ci riconosceranno i cani che ci hanno preceduti in Paradiso; e lo riconosce tra gli umani la sola sua vecchia nutrice quando la vista, aristotelica sovrana, nell’Odissea s’inchina al tatto, perché Euriclea appura il ritorno del re mentre lavandolo ne palpa l’inconfondibile cicatrice di caccia. Nel tatto risiede anche la differenza omerica tra la vita e la morte poiché, nota Maurette, “i morti possono vedere, sentire e parlare, percepire gli odori e i sapori. In questo senso sono esattamente come i vivi, tranne che per un dettaglio cruciale: non possono toccare e non possono essere toccati. Odisseo se ne rende conto quando, dopo aver visto la madre, tenta invano di abbracciarla non una, o due, ma tre volte; la sua ombra gli sfugge dalle mani come una statua scolpita nella nebbia”.
Molto più tardi, ricondotto all’incessante moto degli atomi nella materia, il contatto tra corpi senza trascendenza decreterà l’interesse rinascimentale per Lucrezio. Il riscoperto autore del De rerum natura assegna proprio un aggettivo tattile, suavis, al distacco filosofico dalla paura della morte e degli dèi: morbida al tocco si presenta questa saggezza epicurea, naturalmente per chi se n’accontenta. Il poeta latino irrompe sulla scena intellettuale dell’Italia quattrocentesca come “una sorta di contagio”, ma prima che finisca il secolo la caravella Pinta, pilotata da Martín Alonso Pinzón, veleggia di ritorno dalle Indie occidentali alla Galizia recando il nuovo spettro della sifilide, che i napoletani avrebbero chiamato mal francese e i francesi mal napoletano, frutto velenoso di peccati dell’intimità che non avrebbe risparmiato il fior fiore degli intellettuali. Contagio, parola che la recente pandemia ha vivificato, è composto del latino tangere e della preposizione cum, “un tipo di tocco che si accompagna a qualcosa, che lascia qualcosa dietro di sé, un segno, una macchia; è un tocco trasformativo”. Il distanziamento sociale durante il Covid ha rimesso in castigo l’insidioso senso per un periodo che la Storia valuterà oggettivamente breve, ma che è parso lungo a chi lo visse restringendo il tatto alle funzioni digitative del telelavoro, dei collegamenti Zoom o a quegli orrendi saluti con i gomiti. Che perda o vinca nella Storia, il tatto sembra aver trovato sicuro rifugio nel linguaggio con una imponente mole lessicale che gli si riferisce, addirittura carsica poiché nell’uso corrente poco ci si fa caso, soprattutto quando le parole non attestano più contiguità corporea ma si traducono in metafora: toccare può significare anche influenzare o commuovere e può contrassegnare rapporti senza bisogno di fisicità perché “ci può toccare una parola, una melodia, un gesto, un’immagine, un argomento”. E si può “agire con tatto”, ossia discreti e abili rispetto alle emozioni altrui, agli affetti. Prescindendo da qualsiasi vicinanza dei corpi.
Forse è vero, come sostiene Maurette fra numerose citazioni, che il tatto non è solo un senso ma molti, e “tutto ciò che ci muove, ci emoziona, ci agita, ci infiamma; tutto ciò che provoca in noi anche il più piccolo movimento affettivo è vissuto, in ultima analisi, come una forma di tatto”. Forse è opportuno adoperare, per descriverne l’estensione, il termine “aptico” con cui la lingua greca non stabilisce solamente il tocco, ma qualcosa di più e di diverso che facilmente evapora nelle traduzioni (azzardiamo per proporne l’idea un esempio tanto delicato che è prudente tenerlo in parentesi: chissà se il “Noli me tangere” del Gesù risorto a Maria Maddalena renda in latino pienamente il senso dell’originale “Mé mou haptou”). Non è localizzata, la sensazione “aptica”, in un organo specifico. Si origina piuttosto dalla “interiorità insondabile”. Opera in ogni muscolo, nei legamenti, scorre nel flusso sanguigno e si diffonde sulla pelle, che è l’organo più vasto e più complesso del corpo umano e funziona “come un reliquiario delle esperienze passate”, “la frontiera insuperabile che ci separa dal mondo e ci connette a esso. La pelle è una tela su cui due mani (la propria e quella del mondo) dipingono il quadro della nostra vita. E’ il palinsesto dove si iscrive la nostra biografia”.
Nell’ultimo ventennio, per una parallela coincidenza con i cambiamenti percettivi impressi dal touchscreen, anche l’estetica diffusa del “palinsesto dermico” è mutata. Con i primi caldi stagionali aspettiamo di rivedere lo sfoggio di tatuati, pelosi polpacci maschili in stile Maori o con la lupa della Roma; di avambracci definiti nel fitness invernale che paiono rivestiti di maniche ma si rivelano al secondo sguardo come incisioni elaborate con pazienza irreversibile su punte d’aghi colorati. Mai come nel secolo attuale i corpi “reliquiari delle esperienze passate” esibiscono memorie magari già sbiadite in cuore ma che l’epidermide trattiene, e mentre si sono rarefatte in favore del bianco le epidermidi delle abitazioni, rappresentate un tempo dalle carte da parati, la pelle s’è appropriata di quelle velleità decorative. “Tatuaggi, piercing, chirurgia plastica, body paint, trucco, creme e cosmetici in generale sono segni comuni di identità personale e collettiva”, scrive Maurette. Chissà cosa ne avrebbero pensato i futuristi, che pure propugnarono poco più di cento anni orsono l’invenzione del “tattilismo” come nuova scienza. Fu nel 1921, quando Filippo Tommaso Marinetti pubblicò l’appello sulla rivista Comoedia auspicando per l’Europa uscita dalla Grande guerra il predominio del tatto sugli altri sensi: “Nel tattilismo, l’unico mezzo di comunicazione è l’epidermide e, per sviluppare al massimo il suo potenziale, Marinetti propone un’educazione aptica. Suggerisce quindi di fornire una serie di carte con consistenze e materiali diversi, che serviranno alle mani e alla pelle per allenarsi a riconoscere gli oggetti senza vedere. Queste tabelle includono elementi come vetro, argento, velluto, lana, seta, squame di pesce, pelliccia di cavallo, pelle umana, capelli, ferro, spugne ecc. Per allenare l’epidermide, Marinetti raccomanda esercizi come nuotare nudi e cercare di distinguere le diverse correnti sottomarine in base alla loro temperatura, o addestrarsi a riconoscere tutti gli oggetti in una stanza buia attraverso il tatto”. Difficile sapere se questo training, che gli era lampeggiato sulla spiaggia di Antignano durante una vacanza estiva, fu praticato da Marinetti stesso o se si limitò a proiettarne l’idea come altre brillanti pirotecnie con cui s’illumina d’effimero il cielo intellettuale.
Resta invece sicuramente duratura, indiscutibile, imprescindibile la pratica del bacio, che pure questa “breve storia” attribuisce a una specifica declinazione del tatto anche se ricomprende tutti gli altri sensi e qualche volta forse un sesto (malgrado, com’è noto, darne prova sia impossibile). E’ il senso che s’attiva quando l’intuizione amorosa trascende i corpi e s’avverte reciproca da bocca a bocca in virtù di corrispondenze che gli artisti hanno raccontato benissimo, ma continueranno a dimorare tra i misteri dell’anima. Al di là di ogni touch e di ogni mano, che pure è il magico strumento dell’umano dominio sul mondo.