Il Giro del 1994, il ciclismo con Lance Armstrong, i compromessi che si dovevano fare ma che non ha mai fatto. Intervista all’ex corridore della Motorola
Tirreno-Adriatico del 1994. Salita. Fatica. All’improvviso Gabriele Rampollo si sente trasformato in piombo, o in marmo. Qualcuno si è aggrappato, si è attaccato, si fa tirare, si fa trainare. D’istinto Gabriele Rampollo reagisce. Gli girano. Si gira. E che c… Ma si blocca qui. Perché ad aggrapparsi, ad attaccarsi, a farsi tirare e trainare, è il suo capitano: Lance Armstrong.
Rampollo, pronti, via?
“Sessantottino, nel senso nato nel 1968. A Casale Monferrato, poi subito a Torre Beretti in Lomellina. Mio padre: una fabbrica di scarpe da uomo, di qualità, di quelle che durano una vita e meritano di essere riparate, tant’è che la fabbrica sopravvive alle crisi economiche. Mia madre: un negozio di scarpe e abbigliamento. Una sorella maggiore e una sorella minore. Studi fino al diploma da ragioniere, 37 sessantesimi, perché 37 e non 36 me lo chiedo ancora, forse un codice”.
Intanto corridore?
“A sette anni, la maglia della Viris di Vigevano, verde con una striscia rossa e blu, poi quella della Lomello, a scacchi, quattro, gialli e verdi, la prima corsa una vittoria, ero bravo, sono sempre stato bravo, tranne da esordiente, quando gli altri erano già ragazzini e io ero ancora bambino, poi, cresciuto, ho ricominciato a essere bravo. Finché divento dilettante, vinco le mie corse, che però non sono mai quelle dei migliori, fenomeni come Bortolami, Bartoli, Rebellin, Pantani”.
Professionista?
“La Motorola, la multinazionale in cui corre Armstrong campione del mondo nel 1993, ha perso Max Sciandri passato alla GB-MG Boys, e intende sostituirlo con un altro italiano. Si offre Andrea Solagna, un veneto che da dilettante ha vinto il Liberazione e poi gareggia negli Stati Uniti. Ma Massimo Testa, medico della Motorola, mi conosce e mi raccomanda. Ingaggiato. Nel 1994 è dura fare il corridore. Il gruppo vola. Io, soprattutto in salita, arranco”.
Il battesimo?
“Al nord. Harelbeke: non la corsa dei muri, ma i muri ci sono, non la corsa del pavé, ma il pavé c’è. Armstrong fora. Ci fermiamo io e il norvegese Stenersen. L’ammiraglia chissà dov’è. Lance sfila la ruota, io stacco la mia – siamo a due metri di distanza – ma invece di portargliela, non so come si faccia, gliela lancio. La ruota rimbalza, Lance la prende al volo, cerca di inserirla, non ci riesce, s’innervosisce, perde tempo, traffica ancora, finalmente ce la fa. Intanto sopraggiunge l’ammiraglia, il meccanico si precipita da Lance, pensa che la ruota che Lance ha appena messo sia quella forata e la toglie, Lance urla, il meccanico rimette la ruota, Lance salta sulla bici e insegue. Sostituita la mia, anch’io riparto. Il direttore sportivo Noel Dejonckheere, belga, mi incita ‘a tope’ e io non so che cosa significhi. Comunque con Stenersen rientro nel gruppo dove c’è Lance, tiriamo 10-20 chilometri, ma ormai la corsa è andata, Lance mi dice ‘good job’ e si ritira, noi andiamo avanti”.
Poi?
“Le Samyn. Cado e ne butto giù una trentina. Anche George Hincapie, mio compagno di squadra, neoprofessionista come me. Mi rialzo, risalgo sulla bici e riparto. Hincapie mi urla: ‘It’s my bike!’. Ho preso la sua. Finisce che ci ritiriamo tutti e due”.
Il Giro d’Italia?
“Nonostante i risultati, al massimo un nono posto in volata in una tappa piatta del Romandia, vengo selezionato per il Giro perché sono l’unico corridore italiano della squadra. La prima tappa, una semitappa di 86 chilometri, a Bologna, si conclude in volata, sedicesimo, neanche male, ma rimarrà il mio meglio. Poi solo fatiche da morire. Nella generale scendo agli ultimi posti, guadagno posizioni solo grazie a chi si ritira. La quattordicesima tappa, la Linz-Merano, partenza in salita, andatura forte, un inferno, Stefano Della Santa, uno scalatore, piange fermo a una roccia. Navigo a vista nell’ultimo gruppetto. Sull’ultima salita cedo. Con una discesa a tomba aperta riguadagno un paio di minuti e rientro nel gruppetto. La sera un meccanico mi fa i complimenti: ‘Hai staccato Thierry Marie’, cronoman, considerato il discesista numero 1. Il giorno dopo è il tappone alpino: Stelvio, Mortirolo e due volte l’Aprica. L’ultimo tornante del Mortirolo solo grazie alle spinte, senza pedalare e frenando in curva. In crisi, non riesco a mangiare. Mando giù solo zucchero. Così mi viene la diarrea. ‘I’m full of shit’, dico all’ammiraglia nel mio inglese stradale. Loro pensano che mi voglia ritirare. Mi fermo, mi spoglio, la faccio. Risalgo, ricomincio, ma ho un altro attacco. Dall’ammiraglia mi dicono che non posso fermarmi altrimenti finirei fuori tempo massimo. Me la faccio addosso. E così arrivo al traguardo nell’unica tappa in cui sono venuti a vedermi amici e parenti”.
Poi?
“Sono devastato, verde e vuoto. Per tre tappe mi salvo. La quartultima tappa si va da Lavagna a Bra, si affronta la Scoffera al contrario, piano, in discesa verso Nizza Monferrato scoppia un temporale, mi congelo, mi stacco, sono finito, il direttore sportivo di un’altra squadra, Dario Mariuzzo, mi conforta dicendo che anche tre dei suoi hanno abbandonato, io salgo sul camion-scopa, e così perdo l’ultimo posto in classifica che mi giocavo con Jurgen Werner, un tedesco della Telekom. Ci tenevo. ‘Anche l’ultimo entra nella storia’, mi diceva Franco Chioccioli, primo nel Giro del 1991. Peccato”.
Quelli erano gli anni di piombo del ciclismo.
“Bisognava scendere a compromessi. Non lo feci soltanto perché non li conoscevo. Se li avessi conosciuti, probabilmente mi sarei adeguato. Per questo non mi considero un eroe. Andavo a pastasciutta e gelati, anche se adesso non mi crede nessuno. Alla fine dell’anno i responsabili della Motorola fanno i conti: 17 vittorie, di cui 15 negli Stati Uniti e due in Lussemburgo con Hincapie. Lasciano a piedi metà squadra, ci sono anch’io, e si adeguano ai metodi generali”.
Soddisfazioni?
“Parigi-Bourges, percorso in pianura, giornata di grazia, attacco e rimaniamo in 30, attacco e rimaniamo in 20, attacco e rimaniamo in 10. Hennie Kuiper, direttore sportivo, mi dice ‘attento a quei due’, il belga van Hooydonck e l’olandese Verhoeven. Scappano altri due, van Hooydonck e Verhoeven si guardano, io guardo loro, i due evasi si giocano la vittoria, noi il podio, risultato: primo Michaelsen, terzo van Hooydonck, quinto io, ottavo Verhoeven. Avrei dovuto continuare a correre alla garibaldina”.
Un’altra?
“Concluso il ritiro a Castagneto Carducci, Andy Hampsten, che sarebbe stato capitano al Giro, mi porta a casa sulla sua Escort familiare scassata. Mi chiede se mi piace Martin Luther King. Poi inserisce una cassetta. Un discorso lungo un’ora e mezza. Hampsten, intelligente e sensibile”.
Un’altra ancora?
“Giro d’Italia, Vincenzo Torriani, il patron, mi chiede come vada, io – sorpreso e inorgoglito – gli rispondo ‘bene, grazie’, lui mi saluta ‘ciao Gianni’. Mi ha scambiato per Bugno”.