Le conseguenze dell’invecchiamento

Come cambiano le piramidi demografiche: l’Italia un caso esemplare in un trend mondiale. Ma una società anziana è più fragile e meno adatta allo sviluppo e al miglioramento. Aspettative in calo, ansie crescenti. Che cosa si può fare

Un amico un po’ più vecchio di me, che ho 71 anni, visita spesso il Senegal dopo aver studiato a lungo l’Asia centrale. Là, mi racconta, dove ci sono ancora molti giovani, è normale sentirsi dire “è vero, va molto male, ma vedrai, domani andrà meglio”. Tranne che in casi eccezionali, ci siamo detti, ai vecchi sembra invece che le cose vadano sempre peggio, una verità che persino Cicerone, l’autore del più famoso elogio della vecchiaia, non negava in privato: come scrisse all’amico cui l’aveva dedicato, per tirarsi su doveva “leggerlo e rileggerlo”, perché “la vecchiaia mi rende tutto più amaro e tutto mi irrita (amariorem enim me senectus facit. Stomachor omnia)”. 2000 anni dopo Norberto Bobbio avrebbe confessato di conoscere bene lo “stato d’animo del vecchio per il quale il passato è tutto e il futuro è nulla”, anche perché ha un termine cui si arriva deteriorandosi progressivamente cioè, appunto, peggiorando.

In società con una forte presenza di anziani le aspettative decrescenti sono quindi per molti la norma perché legate al proprio declino, anche quando ci si sforza di non pensarci. Ma anche buona parte della società ne è contagiata per il clima che ciò genera e perché una società anziana è economicamente fragile e meno adatta allo sviluppo e al miglioramento.


Questa è sempre di più la condizione dell’Europa come del Giappone o della Corea del Sud, e l’Italia è un caso esemplare. Per capirlo basta guardare a tre “piramidi demografiche” (si chiamano ancora così perché un tempo lo erano) ricavate da un bel sito (populationpyramid.net): quella dell’Italia del 1954, quando sono nato io, quella di oggi e la proiezione, abbastanza credibile a meno di una grande immigrazione, per il 2050. Il peso crescente dei vecchi e il crescente schiacciamento dei giovani sono evidenti.

Sappiamo che si tratta di un trend mondiale. A conferma del nostro essere un’unica specie che reagisce in modo simile a stimoli simili, esso ha già contagiato la Cina, si intravede in India e arriverà anche nell’Africa subsahariana, l’ultima a conoscere quella combinazione di boom economico e boom demografico che definimmo “miracolosa”.


In società con una forte presenza di anziani le aspettative decrescenti sono per molti la norma perché legate al proprio declino. Ma anche buona parte della società ne è contagiata. La denatalità e l’allungamento dell’attesa di vita sono figlie, rispettivamente, del benessere e delle conquiste della scienza




La tendenza è mostrata con chiarezza da un sorprendente grafico pubblicato dal New York Times. Certo non è detto finisca così, anche se per l’inerzia dei fenomeni di cui si occupa la demografia è la sola “scienza” umana in grado di fare previsioni credibili su qualche decennio. Invertire il processo è infatti possibile, perché siamo una specie intelligente e quindi capace di distinguere tra interessi di breve e di lungo periodo, modificando i nostri comportamenti. Ma la fiamma di questa intelligenza va accesa e bisogna farlo presto, perché è evidente che tra 30-40 anni anche l’immigrazione – che comunque se è di massa pone problemi complessi – non sarà un’opzione possibile a causa della rarefazione dei giovani che la dovrebbero alimentare.

In ogni caso è già sicuro che l’oggi e il domani del mondo bianco europeo, che ha conosciuto per primo boom demografico, sviluppo e miracolo sono e saranno fatti per alcuni decenni da sempre più vecchi e meno giovani. Gli Stati Uniti, che nel 1965 si sono aperti – senza rendersene conto – a una nuova ondata migratoria di portata maggiore di quella antecedente la chiusura del 1924, sono invece anche per questo più vitali di noi (negli ultimi 15 anni il loro Prodotto interno lordo è per esempio diventato quasi il doppio di quello europeo), pur pagando un pesante prezzo politico alla difficoltà di gestire un cambiamento radicale nella struttura della loro popolazione, complicato da una forte immigrazione illegale.


Viviamo insomma in una modernità che è diversa dalla precedente perché “matura” anche in senso letterale e di cui è difficile affrontare i problemi perché essi sono la conseguenza di forze positive. La denatalità e l’allungamento dell’attesa di vita sono infatti figlie, rispettivamente, del benessere e delle conquiste di una scienza cui nessuno può voler rinunciare perché ci hanno dato una vita più piena e degna.


La dinamica dell’ascesa di questa modernità “matura” ha ulteriormente complicato la nostra capacità di vederne e maneggiarne i problemi. Almeno in un primo periodo, lungo alcuni decenni, la diminuzione dei più giovani ha infatti contribuito ad aumentare il benessere, riducendo il numero di bambini per occupato senza aumentare troppo il numero di anziani incapaci di lavorare, come è avvenuto in Europa nei vent’anni successivi al 1945, quando la speranza di vita alla nascita passò da 55 a 65 anni.


Nacquero allora società in cui c’era una più alta quota di lavoratori rispetto ai “dipendenti”. E quando poi, come nell’Europa di inizio anni Settanta, iniziarono a nascere meno figli di quelli necessari alla riproduzione dell’esistente, e la speranza di vita salì prima verso gli 80 e poi i 90 anni, per almeno vent’anni non ci si accorse dell’impatto di quelle nascite mancate perché nuovi ventenni continuavano comunque a entrare nel mondo del lavoro.


La prima grande svolta avvenne quindi negli anni Novanta, quando i vantaggi iniziali si trasformarono in svantaggi: a diminuire cominciarono a essere infatti i ventenni, inizialmente rimpiazzati da un’immigrazione che arrivava da vicino, mentre si moltiplicava il numero degli ultrasessantacinquenni. Chi lavorava doveva quindi di nuovo mantenere più persone ma di tipo diverso dai bambini pieni di vita di una volta e questo su uno sfondo politico e normativo nato all’incrocio tra le grandi aspettative generate dal miracolo e la generosa legislazione sociale resa possibile dallo sviluppo. Si cominciava insomma a passare da generazioni con una vecchiaia e degli affetti assicurati da lunghe pensioni e dalla presenza di figli e nipoti, a generazioni con pensioni sempre più tardive e aleatorie e affetti meno numerosi e presenti. Molti dei loro appartenenti cominciarono inoltre a doversi prendere cura di genitori anziani invece che di nipotini, con la prospettiva di farsi accudire da badanti di culture sempre più distanti, e questo se ci sarà ancora chi vorrà venire in Italia.


Qualche dato permette di capire quanto la situazione sia pesante e in via di peggioramento. I 930.000 bambini del 1968 erano scesi nel 2000 a 543.000 e a 374.000 nel 2024. La speranza di vita è oggi di 82,7 (80,6 per gli uomini e 84,9 per le donne), un dato superiore a quello della media europea, mentre l’età media degli italiani, che nel 1945 era di meno di 30 anni, è salita ai 48,1 dell’anno scorso.


Nel 2022 gli italiani con meno di 18 anni erano poco più del 15 per cento del totale, quelli con più di 65 il 24 per cento, e tra questi la metà circa ne aveva più di 75. Nel 2050 gli ultrasettantacinquenni da soli potrebbero essere quasi un quarto della popolazione e la percentuale degli anziani non autosufficienti, già alta (secondo il Censis oggi è tale il 40 per cento degli ultraottantenni), è quindi destinata a aumentare velocemente, ponendo seri problemi di spesa a un paese che già oggi ha difficoltà a far fronte alla situazione. Cresce intanto, come in tutta Europa, il numero di “famiglie” composte da una sola persona, che erano nel 2023 circa 8,5 milioni, il 33 per cento del totale (in Svezia si è al 51 per cento!), spesso – anche se non sempre – vecchi soli che avranno sempre meno spesso figli su cui contare.


Allo stesso tempo la composizione della spesa pubblica è già pesantemente sbilanciata a favore degli anziani. Col crescere dell’età crescono numero e qualità delle prestazioni chieste al Servizio sanitario, che ha quindi bisogno di aumenti costanti di finanziamento solo per mantenere il livello precedente. Come ha notato Gianfelice Rocca, nei paesi industrializzati gli ultra-sessantacinquenni spendono in media per la salute sei volte di più di chi ha meno di 20 anni, e una parte consistente di queste spese copre gli ultimi mesi di vita. L’aumento degli stanziamenti per il Ssn è quindi “giusto”, ma equivale a un trasferimento di risorse agli anziani. Quanto alle pensioni, esse rappresentano la voce di gran lunga dominante della spesa pubblica primaria, di cui assorbono circa il 40 per cento. I contributi degli occupati non bastano a farvi fronte (l’Italia ha un sistema contributivo solo per il calcolo delle singole pensioni), e le pensioni prendono quindi più di 80 miliardi di euro dalla tassazione generale, che si sommano a quelli usati per le prestazioni assistenziali.


Viviamo quindi in un paese radicalmente diverso non solo da quello del “miracolo” ma anche da quello del secolo che lo ha preceduto. Questa diversità tende inoltre a aumentare e la sua entità è rispecchiata dalle sue conseguenze economiche. All’oggettiva fragilizzazione dello “sviluppo” – che alcuni ideologhi imputano a scelte politiche “neoliberali” che non sono che tardivi adeguamenti alla realtà, fatti spesso di controvoglia – fa da contraltare una riduzione strutturale della domanda che lo stato ha cercato ovunque di integrare (è del resto per rispondere a quello che riteneva un inevitabile declino demografico che Keynes ha elaborato il suo sistema, poi trasformato in una “tecnica” dello sviluppo). La spesa pubblica quindi cresce e si modifica, come la domanda nel suo complesso, perché aumenta la quota destinata agli anziani o decisa da loro in base a esigenze assai diverse da quelle dei giovani e di chi ha figli.


Il moltiplicarsi degli ultrasettantacinquenni costringe anche a ripensare il famoso modello dei tre cicli di vita di Franco Modigliani: il loro moltiplicarsi suggerisce infatti che ve ne andrebbe aggiunto un quarto, che potrebbe rivelarsi un peso netto per la società. Questo mentre la produttività complessiva della forza lavoro tende a calare (basta pensare a quanto e come può lavorare in media un ultrasessantenne rispetto a un trentenne), una tendenza per fortuna compensata dai progressi della scienza e della tecnica, chiamati però quindi a svolgere almeno in parte una funzione compensativa e non direttamente e prevalentemente migliorativa, com’era in passato. L’effetto generale è una spinta verso l’erosione di diritti costosi che più saggiamente i francesi hanno chiamato privilegi acquisiti in virtù di una situazione contingente eccezionalmente favorevole.


Se un dibattito sulle conseguenze socioeconomiche dell’invecchiamento si è comunque sviluppato, la discussione sulle sue conseguenze psicologiche, intellettuali e politiche sembra ostacolata dalla difficoltà di “vedere” la nuova modernità in cui viviamo.


Si tratta di difficoltà certo intellettuali: le categorie necessarie ad analizzarla sono ancora in costruzione e quindi siamo privi di quelle giuste, cui a volte suppliamo ricorrendo a categorie del passato che peggiorano invece di migliorare la nostra capacità di vedere. Vediamo infatti di regola le cose non come sono – ma come siamo, o meglio come ci siamo formati e quindi come “eravamo”: e gli ultracinquantenni di oggi sono nati e si sono formati in una modernità radicalmente diversa da quella odierna perché dominata dalla presenza e dal culto dei giovani e dall’apocalittismo della population bomb che spingeva anche intellettuali e scienziati importanti a proporre di non curare i malati e di non nutrire gli affamati, e politici di diversa ispirazione a imporre sterilizzazioni forzate e politiche del figlio unico. Non a caso a non pochi di quegli ultracinquantenni il mondo di oggi, col suo apocalittismo green, i suoi tantissimi anziani, e le sue “famiglie” unipersonali sembra un “mondo all’incontrario”, da combattere più che da capire. E’ una sensazione tanto più diffusa quanto più aumenta il numero di coloro che hanno vissuto abbastanza a lungo da sperimentare cambiamenti “epocali”, un’esperienza prima riservata ai pochi che superavano i 65 anni. Essa contagia oggi invece tutta la società perché cresce il numero di chi, in un certo senso, vive ancora dentro di sé in un tempo diverso da quello in cui pure si affatica.


Ci sono però anche difficoltà psicologiche: nessuno infatti ama guardare all’invecchiamento, che vuol dire alla morte, un rifiuto naturale e a suo modo utile per la serenità dei singoli. Preferiamo piuttosto pensare a cose più gradevoli, e se proprio siamo chiamati a riflettere sull’invecchiamento, cerchiamo di vederlo da una prospettiva positiva. Ne ho di recente fatto esperienza personale. Da membro del Supervisory Board del Pnrr Università e Ricerca proposi di dedicare uno dei grandi temi da finanziare proprio alle conseguenze dell’invecchiamento per analizzare “le sfide socio-economiche e politico-culturali derivanti dalle dinamiche demografiche in Italia e in Europa, nel quadro delle tendenze internazionali (produttività, consumi, risparmio, pensioni, mentalità e idee, comportamenti e stili di vita legati alla sostenibilità, preferenze personali e politiche, aspetti giuridici, immigrazione, ecc.) e le politiche più appropriate per affrontarle”. Questo naturalmente senza trascurare l’importanza di affrontare “i processi che danno origine all’invecchiamento e alle relative patologie croniche e neuro-cognitive… e le tecnologie che favoriscono l’invecchiamento attivo e l’indipendenza delle persone anziane”.


Ho poi avuto la soddisfazione di vedere la mia idea approvata e il bando emesso. Centinaia di studiosi, sostenuti da centinaia di milioni di euro, lavorano oggi a un progetto che però si è inevitabilmente trasformato e si chiama, sulla strada di Cicerone, “Ageing Well in an Ageing Society”. Ageing well appunto, come è giusto e naturale desiderare, oscurando tuttavia verità sgradevoli che andrebbero viste e affrontate e non solo nelle lettere private agli amici, perché anche il nostro modo di affontarle determinerà quanto bene invecchieremo, e moriremo.


I 930.000 bambini del 1968 erano scesi nel 2000 a 543.000 e a 374.000 nel 2024. La speranza di vita è oggi di 82,7 (80,6 per gli uomini e 84,9 per le donne), un dato superiore a quello della media europea, mentre l’età media degli italiani, che nel 1945 era di meno di 30 anni, è salita ai 48,1 dell’anno scorso




Che si può allora dire delle conseguenze psicologiche, intellettuali e politiche dell’invecchiamento nelle società moderne mature, se ci si sforza di abbandonare idee e categorie del passato? La prima cosa che emerge è il cambiamento, che non è solo rovesciamento, della frattura che almeno dall’Ottocento divideva i Padri e figli di Turgenev favorendo i secondi, tanto da spingere quasi un secolo dopo Dino Buzzati a immaginare dei Cacciatori di vecchi.


Questo cambiamento fa parte di quello, sostanziale, delle faglie che dividevano la modernità precedente e attorno a cui si addensavano i suoi conflitti, i suoi partiti e le sue scelte elettorali: contadini, borghesi e operai; laici e cattolici; città e campagne; alfabeti e analfabeti; italofoni e dialettofoni ecc. Ad esse se ne contrappongono oggi di nuove, come quella, anche reddituale, che divide chi è selezionato positivamente dal nuovo sistema di istruzione anche superiore di massa da chi lo è negativamente; quella tra donne e uomini, e specie uomini che non studiano; quella tra cittadini e no, e tra nativi e non nativi; quella tra chi è direttamente favorito o sfavorito dalla globalizzazione (perché indirettamente ne abbiamo tutti beneficiato); o quella tra chi è capace di parlare, oltre l’italiano, l’inglese, e chi invece si è limitato ad aggiungere l’italiano al dialetto.


Prima di indicare le differenze tra giovani e anziani (diciamo tra chi ha meno di 35 e chi più di 65 anni) vale la pena di guardare ad alcune caratteristiche della nuova Modernità che ne accomunano l’esperienza. La prima è quella, già ricordata, delle aspettative decrescenti, che prende naturalmente forme diverse nei due gruppi, ma fa per entrambi delle “riforme” – un tempo desiderate perché “davano” – una cattiva parola, a torto sul lungo periodo, perché garantiscono la tenuta di alcuni diritti-privilegi, ma a ragione sul breve, perché tolgono, come fa per esempio l’aggiornamento del legame tra pensione e speranza di vita.


La seconda è quella che si può definire la crescente individualizzazione dei comportamenti e degli stili di vita, permessa dal benessere generato dal Moderno precedente e che il nostro cerca di mantenere, e fatta esplodere da computer, cellulari e internet. Alla cosiddetta “società di massa” (che vista in questa prospettiva si presenta come primo, grande frazionamento di una società precedente composta da tantissimi contadini, pochi preti e nobili e qualche “cittadino”) se ne sostituisce una fatta da gruppi (“bolle”) costruiti su affinità personali e in continuo mutamento che sembrano smentire la tesi – già minata dalla preferenza per il sé rispetto al costo di far figli che si afferma una volta raggiunto un certo livello di vita – circa la natura sociale dell’essere umano. O piuttosto, questi comportamenti sembrano suggerire che la “socialità” può diventare un fenomeno condizionale e individuale – come intuì Lasch ne La cultura del narcisismo – e non generazionalmente “trasmissivo”.


La terza, sempre radicata in una situazione di benessere, per quanto relativo, in cui la sopravvivenza è – almeno nei paesi “sviluppati” – in qualche modo garantita, è costituita dalla maggiore possibilità di distaccarsi, sempre relativamente, dalla realtà. E’ infatti oggi più facile immaginare e anche vivere la vita a modo proprio, e il peso delle rappresentazioni sembra in decisa crescita. Certo, già Montesquieu sapeva che sicurezza (reale) e opinione della sicurezza (immaginaria) contavano nello stesso modo, ma oggi la potenza dei discorsi e delle percezioni appare moltiplicata perché infinitamente più numerose sono le persone che non devono sempre e direttamente misurarsi con la realtà, tutto sembra scelta o costruzione (e molto lo è diventato) e la nostra immaginazione nutre rappresentazioni che guidano i nostri comportamenti in campi molto più vasti di quello della sicurezza.


Anche la globalizzazione e la nuova questione della lingua (incarnata per ora dalla diffusione dell’inglese) hanno un impatto simile su giovani e vecchi: se, come ho detto, tutti hanno indirettamente beneficiato della prima, a sopportarne più direttamente l’impatto sono stati gli strati più fragili delle due categorie chiamati a fare i conti con beni e pratiche che per molti di loro è difficile usare e imparare (dal cashless ai programmi informatici e alle lingue necessarie a un buon lavoro) o con la concorrenza di lavoratori capaci di produrre nei loro paesi, o di fare se immigrati in Italia, quel che fanno loro. Molti anziani e i giovani meno istruiti sono insomma i più esposti, e vivono da “penultimi” una perdita di status e di sicurezza che nutre astio e teorie del complotto.

I vecchi, in particolare, soffrono di più per cambiamenti che producono in loro insieme depressione e irritazione, siano essi innovazioni tecnologiche (ne so qualcosa anch’io ogni volta che cambio un computer o un cellulare) o mutamenti sociali. Il disagio si estende infatti a tutti i grandi cambiamenti di un mondo che gli appare, appunto, “sottosopra”: la cosa vale per l’evoluzione nei rapporti uomo-donna (di cui per un vecchio è più difficile scorgere i lati positivi, anche affettivi) o nella struttura della famiglia (e qui la crescente solitudine ha pochi rimedi), come negli stili di vita e nelle mode: ho ascoltato di recente un distinto sarto in pensione chiedersi come fosse possibile che sua madre rammendasse di notte i vestiti da indossare a scuola, e ora i giovani pagassero per pantaloni strappati apposta.


Uno dei cambiamenti che suscita maggiore sorpresa e disagio è l’immigrazione, che appare innaturale a chi è cresciuto in un paese di emigranti, e che porta oggi in Italia e in Europa persone che vengono da paesi sempre più lontani, culturalmente oltre che geograficamente. Il disagio nei suoi confronti è alimentato da una storia che fino agli anni Settanta è stata in Europa una storia di “omogeneizzazione” etnoculturale voluta e cercata, spesso anche con la violenza: gli ultrasessantenni sono cioè cresciuti in un paese che diventava col tempo sempre più “italiano”, superando il localismo, e ha poi preso a esserlo di meno. E quel disagio è accresciuto dal fatto che le “soglie” di tolleranza degli anziani per le novità sono in media più basse di quelle dei giovani (la maggiore o minore istruzione è un altro importante fattore della loro variazione).


Gli ultrasessantenni sono cresciuti in un paese che diventava col tempo sempre più “italiano”, superando il localismo, e ha poi preso a esserlo di meno. E le “soglie” di tolleranza degli anziani per le novità sono più basse di quelle dei giovani




Lo stesso vale per l’ansia suscitata dalla criminalità. E’ indubbio che specie quella violenta è notevolmente diminuita, come indicano i dati sugli omicidi. Ma se la soglia di tolleranza “media” si è nel contempo abbassata a causa dell’invecchiamento, una criminalità minore susciterà realmente maggiore preoccupazione, perché essa è diventata davvero, ancorché paradossalmente, più alta (torniamo qui alle osservazioni di Montesquieu).


Ma il disagio maggiore è quello che provoca il continuo, ancorché spesso “non detto” confronto col peggioramento fisico inarrestabile che sfocia nella morte, contribuendo ad appesantire il clima del paese. Sta qui l’estrema importanza della questione della morte (per esempio ma non solo nel dibattito sul fine vita) nelle società del moderno maturo. Si preferisce anche per questo evitare di guardare al futuro, rivolgendosi piuttosto verso un passato che diventa ogni giorno più di moda e sempre più rimpianto e corteggiato, come dimostrano media pieni di nostalgia e di articoli e interviste che la coltivano. E se una parte della destra ha fatto fortuna predicando la possibilità di un ritorno a un passato e a una vita “tradizionale”, cui è per definizione impossibile tornare, ri-rovesciando il mondo, la sinistra spesso si fonda sul rimpianto per i “Trenta gloriosi” e i diritti perduti, e stampa tessere con il volto di Berlinguer.


Per i giovani la cosa più importante è la comparsa di una discriminazione rovesciata rispetto all’ageism di una volta: forse le generazioni più anziane hanno avuto davvero, o creduto di avere, più opportunità e sono certo oggi più ricche non solo di quelle più giovani, come è normale, ma anche – in termini relativi – di quelle dei trenta-cinquantenni. E non vale ricordare che i più giovani stanno comunque meglio perché hanno più vita, e che molti vecchi pagherebbero per procurarsene, perché è questo un dato naturale che non ha, e per fortuna non può avere, un prezzo, almeno fin quando non sarà inventato un modo per sottrarre e trasferire vita.


Le “piramidi” con cui si apre questo articolo esprimono con chiarezza i motivi della sensazione generale di inferiorità e di opportunità decrescenti sofferta dai giovani in modo tanto più acuto perché sanno di doverci convivere per decenni. L’evidente, grave marginalizzazione subita da loro e dai loro interessi durante gli anni dal Covid (le scuole italiane sono state per esempio chiuse molto più a lungo di quelle francesi) ne è un segnale altrettanto lampante: vaccinare e vaccinarsi era doveroso, ma chiusure e divieti hanno colpito i più giovani in modo sproporzionato, contribuendo a una autoghettizzazione già in crescita, di cui il successo – anche tra chi “marginale” non è – di stili, culture e musiche proprie all’estero di mondi marginalizzati è probabilmente un indizio.


Ho già osservato che il sistema di istruzione anche superiore di massa è oggi probabilmente il maggior filtro di selezione sociale all’opera nelle nostre società, ed è un bene che sia così perché, malgrado tutti i suoi difetti, è un meccanismo più giusto ed efficiente di altri. Ma questo non deve impedirci di vederne i problemi e di cercare di porvi rimedio. La superiorità media delle studentesse in quasi tutti i campi di studio deve per esempio servire a segnalare che certi giovani maschi (quelli cui studiare non piace) non trovano un posto capace di dar loro dignità, e sentono anche per questo in modo acuto la pressione dell’immigrazione.


Ma esiste anche il problema degli studenti e delle studentesse più brillanti che spesso non trovano il posto che gli spetterebbe in una società avvertita come più chiusa di quella di 50 o 40 anni fa. La difficoltà di farsi strada in una società anziana e la sensazione che comunque avranno meno dei loro genitori spingono anche loro all’autoghettizzazione, oppure a cercare fortuna altrove, come è naturale e giusto che sia se però non è difficile per chi lo vuole tornare.


La regola del maggior benessere (meno figli uguale più reddito e più libertà) che è stata uno dei motori della crescita e che circa 50 anni fa ha smesso di funzionare a livello generale continua a valere a livello individuale




Ed esiste soprattutto il problema delle giovani donne che continuano, da sole o coi loro compagni, a fare figli sapendo che per questo pagheranno un prezzo salato. I dati infatti mostrano con chiarezza che la differenza salariale tra uomini e donne a parità di istruzione si azzera quasi completamente tra chi non ha figli, e cresce invece proprio per quelle che scelgono di farne. E’ questa forse la contraddizione cruciale e la più importante risolvere. La regola del maggior benessere (meno figli uguale più reddito e più libertà) che è stata uno dei motori della crescita prima e dei miracoli poi e che circa 50 anni fa ha smesso di funzionare a livello generale, impantanandoci in società anziane, continua infatti a valere a livello individuale: l’interesse dei singoli a essere soli negli anni buoni della vita contraddice perciò quello collettivo alla riproduzione, e vengono puniti coloro che contribuiscono a tenere in vita la società.


Tale contraddizione sarà comunque risolta, magari in negativo col deperimento delle società umane. Ma si può sperare che verrà trovata una soluzione positiva, risolvendo la fortissima contraddizione oggi esistente non solo tra interessi degli individui e interessi collettivi, ma anche tra interessi di breve periodo e interessi di lungo periodo degli individui stessi, specie ma non solo se donne.


Questa soluzione positiva ha però bisogno di una svolta radicale, che una politica aperta al futuro è chiamata a sostenere. L’importante è cominciare a capire l’entità delle sue dimensioni sia in termini di risorse che di mentalità e comportamenti, e porsi la questione dei problemi che essa solleva. Come spostare risorse rilevanti in una situazione di crisi? Come fare a far contare politicamente di più i giovani? Quali provvedimenti possono essere presi a loro favore e in particolare a favore delle donne che fanno figli? Come riconoscere e fare più spazio ai più talentuosi dei nostri giovani? E come far capire agli anziani, anche a quelli attivi e capaci, che sarebbe opportuno fare volontariamente un passo indietro a elargitori di consigli, anche non richiesti, lasciando gestione e decisione alle generazioni più giovani? E quali sono gli ostacoli che la politica incontrerebbe su questa strada, che equivale a chiedersi quali siano le difficoltà che affliggono oggi le liberaldemocrazie? Sono problemi su cui spero di riuscire presto a tornare.

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