La forza di Meloni è un’opposizione che non ha nulla da dire

Durerà, non durerà? Idee e numeri per capire il mistero del consenso della premier e del suo partito. Un governo che ha messo al centro della sua agenda la manutenzione piuttosto che la rivoluzione e un’opposizione che non sa presentarsi come alternativa

Oltre Genova c’è di più. Nella pazza politica italiana, in cui i partiti non riescono più a trovare un argomento su cui litigare, in cui i leader non riescono a trovare un tema su cui scannarsi, in cui i talk-show disperati dall’assenza di elementi di divisione sono dominati dalla riapertura delle indagini di un omicidio avvenuto diciotto anni fa, nella pazza politica italiana, si diceva, c’è una domanda pettegola, frivola, sfuggente, non all’altezza dei grandi temi del presente, che rimbomba da tempo nei palazzi del potere. La questione è semplice e spietata e coincide con una domanda senza risposta alla quale proveremo a rispondere senza illuderci di avere una risposta esatta: durerà? La domanda è legata naturalmente al governo Meloni, o meglio alla presidente del Consiglio, ed è una domanda che non riguarda la capacità che avrà Giorgia Meloni, nei prossimi mesi, di contare qualcosa in Europa, di districarsi fra trumpismo ed europeismo, ma è una domanda più spicciola: durerà?

Non è in discussione, ovviamente, la durata del governo Meloni, e se non vi saranno collassi economici la previsione fatta da molti esponenti dell’opposizione è che si andrà a votare nel 2027, magari qualche mese prima di settembre, a giugno, e d’altronde non vi sono scossoni tali, nella maggioranza, da poter far pensare anche lontanamente che le fibrillazioni quotidiane possano trasformarsi in una crisi strutturale. Quel “durerà” è legato a un tema ulteriore che coincide con un mistero della politica italiana e che è rappresentato dal consenso del presidente del Consiglio e del suo partito. L’Italia, lo sappiamo, ha una lunga tradizione, nella Seconda Repubblica, di governi sostenuti da maggioranze che non sono mai riuscite a riconfermare sé stesse alle elezioni successive a quelle vinte. Lo stesso trend, in fondo, salvo qualche rara eccezione come la Spagna e l’India, lo abbiamo visto negli ultimi due anni in giro per il mondo. Alternanza negli Stati Uniti. Alternanza nel Regno Unito. Alternanza in Germania. Alternanza in Argentina. Alternanza in Polonia. Alternanza in Canada. Alternanza in Messico. Alternanza in Grecia. Alternanza in Brasile. L’Italia, da questo punto di vista, è un unicum in Europa, e per quanto la leadership di Meloni, nelle cancellerie europee, sia messa in discussione, da quando c’è Trump la vita dei trumpiani in giro per il mondo è diventata un inferno, in Italia il consenso del presidente del Consiglio, e del suo partito, è rimasto pressoché costante. E anzi, dal suo insediamento nell’ottobre 2022 fino a maggio 2025, Giorgia Meloni e il suo partito hanno registrato un aumento di popolarità.

Alle elezioni politiche 2022, FdI ha ottenuto il 26 per cento dei voti, diventando il primo partito italiano. Alle elezioni europee del 2024, FdI ha raggiunto il 28,8 per cento. Al 15 maggio del 2025, secondo la supermedia di Youtrend, i consensi di FdI sono arrivati al 30 per cento. Discorso simile per il consenso personale di Meloni. All’inizio del suo mandato, la fiducia in Giorgia Meloni si attestava intorno al 41 per cento, la stessa percentuale di oggi (dati Ipsos). Il consenso personale di Meloni è uno dei più bassi della storia recente dei governi (Renzi finì il suo mandato con un consenso del 22 per cento, Gentiloni del 47 per cento, Conte del 47 per cento, Draghi del 49 per cento). E il tema dunque è evidente: durerà? La politica italiana, lo sappiamo, è fatta di cicli, e negli ultimi anni i cicli hanno avuto un andamento stabile. Il ciclo forte di Matteo Renzi è durato circa due anni e mezzo. Il ciclo forte del M5s è durato circa un anno e mezzo. Il ciclo forte della Lega salviniana è durato circa quattordici mesi.



Abbiamo chiesto in prestito al Foglio AI l’intelligenza artificiale per calcolare, sulla base dei dati del passato, quando in teoria dovrebbe arrivare il momento in cui Meloni potrebbe fare i conti con un calo di consenso fisiologico e l’AI ci ha suggerito questa risposta: il punto di flesso naturale dovrebbe arrivare tra l’autunno 2025 e la primavera 2026, perché, sulla base dei trend del passato, a quel punto, l’effetto novità per Meloni si esaurisce, i problemi reali iniziano a presentare il conto (economia, immigrazione, sanità, caro vita…), e per questo il 2026 potrebbe segnare un passaggio critico, soprattutto se FdI non allargherà il proprio consenso oltre la figura di Meloni. Il calcolo dell’intelligenza artificiale è probabilmente corretto ma quello che a metà della legislatura si può provare a mettere a tema (se si considera la durata naturale della legislatura, il giro di boa è stato il 13 aprile 2025) è una questione che differenzia molto la leadership di Meloni da quella di molti predecessori che hanno dovuto fare i conti con il consenso. La grande differenza tra il Pd di Renzi, il M5s di Grillo, Conte e Di Maio, la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia è che dopo due anni e mezzo al governo la leadership di Meloni è l’opposto di quella dei suoi predecessori sul tema dell’essere divisiva. Il Pd di Renzi, il M5s di Grillo, Conte e Di Maio, la Lega di Salvini in modi molto diversi hanno cercato di rivoltare l’Italia come un calzino. Il partito di Meloni, invece, ha scelto di imboccare una strada diversa, e ha messo al centro della sua agenda la manutenzione rispetto alla rivoluzione. Risultato: le grandi riforme, finora, sono state messe da parte, pensate all’autonomia, pensate al premierato.

Alcune riforme, come il premierato, che già era un compromesso dopo la rinuncia al presidenzialismo, sono diventate qualcosa di ancora più piccolo, ovvero la riforma elettorale. E tra le grandi riforme rimaste, dopo due anni e mezzo, sulla scrivania della premier l’unica importante, non banale, è quella relativa alla giustizia, che nonostante la contrarietà dell’Anm ha un tratto di trasversalità superiore a quanto si creda. In questo modo, dunque, Meloni non ha trovato le leve giuste per provare a rivoltare il paese come un calzino – verrebbe da dire per fortuna vista l’identità della sua maggioranza di governo –, non è diventata divisiva, o almeno lo è diventata per quello che non ha fatto più per quello che ha fatto, e non a caso le accuse dell’opposizione negli ultimi anni sono legate più alle sue omissioni che alle sue azioni. Ma questo non essere divisivo ha creato in Italia un contesto politico anomalo all’interno del quale litigare è diventato difficile, gli scontri tra i partiti avvengono più sulla base di ciò che si dice o non si dice piuttosto che su ciò che si fa e in questo senso i calcoli dell’intelligenza artificiale potrebbero essere sbagliati, perché di fronte a un’opposizione che non riesce a presentarsi come un’alternativa se non per il suo essere un’alternativa a livello numerico e perché di fronte a una maggioranza che fa di tutto per non farsi notare, per Meloni in assenza di problemi economici di primo piano giocare con le statistiche potrebbe essere possibile. Lo spunto di riflessione si presta a molteplici discussioni ma quella forse più rilevante su cui occorre tornare con calma riguarda un tema che ha a che fare con l’opposizione: ma in un paese in cui la maggioranza non perde consensi, in un paese in cui l’opposizione non cresce come succede in altri paesi, in un paese in cui anche in presenza di una maggioranza che fa notizia solo per le chiacchiere e non per i fatti, e in un paese in cui in modo naturale l’alternativa, già oggi, dovrebbe essere considerata un’alternativa, siamo proprio sicuri che l’emergenza politica per l’Italia sia una maggioranza che gode del consenso degli elettori e non invece un’opposizione senza idee, senza progetti, senza visione che scommette solo sull’inerzia per diventare alternativa?

Potremmo chiedere un parere all’intelligenza artificiale, e forse lo faremo, ma per rispondere a questa domanda basterebbe utilizzare l’intelligenza naturale, e capire che forse la forza di Meloni, e il suo essere un unicum in Europa, non è la maggioranza che guida ma è l’opposizione che la combatte, che non avendo nulla da dire, non riuscendo a essere divisiva, non avendo una sola idea per provare a conquistare un pezzo di paese più grande rispetto a quello guidato delle proprie tribù, si affida alla statistica per provare un giorno ad arrivare alla guida del paese. Direbbe il commissario Bellachioma, nel mitico film del 1982 girato da Giorgio Capitani: se questa è l’alternativa, vai avanti tu che mi vien da ridere.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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