La diplomazia del regalo, oltre al Jumbo Jet di Trump

Quanta indignazione di fronte alla munificenza dell’emiro del Qatar nei confronti del presidente americano: i doni seducono e legano dalla notte dei tempi. Una rassegna

Ogni qual volta Silvio Berlusconi incontrava Angela Merkel a Berlino o da qualche altra parte in Germania, le portava un omaggio personale, naturalmente acquistato a proprie spese. Una volta era una preziosa porcellana di Capodimonte, un’altra una cassetta da dodici bottiglie di grandi annate di Brunello di Montalcino o di Barolo, un’altra ancora si presentava con uno scialle di baby cashmere Loro Piana che pesava un chilo o con un magnifico vetro di Murano creato apposta per lei. Quei regali costituivano un grande imbarazzo per la cancelliera, persona per nulla legata alle cose materiali, ma soprattutto vincolata dalla legge tedesca a non accettare alcun dono di valore superiore a trecento euro. Glielo ripeteva tutte le volte: “Silvio, grazie, ma non posso, quindi ti prego non farmene più”. Ma quello, patologicamente generoso, faceva finta di non capire e la volta seguente tornava a mani piene. Puntualmente, ogni regalo veniva preso in consegna da un funzionario federale che, dopo averlo catalogato, lo riponeva nella Asservatenkammer, una stanza senza finestre al terzo piano della cancelleria, in cui, come ho potuto constatare di persona, ci sono scaffali zeppi di tutto: gioielli e argenteria, quadri e tappeti, libri pregiati e collezioni di cd, vini e champagne, perfino vestiti haute-couture e magliette da calciatore autografate.

Ma i regali di Silvio Berlusconi fanno sorridere di fronte alla munificenza dell’emiro del Qatar, Tamid bin Hamad Al Thani, che due settimane fa ha rivelato di voler regalare a Donald Trump un lussuoso Jumbo Jet Boeing 747-8 del valore di oltre 400 milioni di dollari, meglio conosciuto come il “palazzo reale volante”. “Sarei uno stupido a rifiutarlo”, ha commentato a caldo il capo della Casa Bianca, definendolo “un grande gesto” da parte dell’emirato. Trump ha intenzione di usarlo per i suoi viaggi al posto del malandato Air Force One attualmente in servizio, vecchio di 40 anni, per poi passarne la proprietà al futuro Museo Presidenziale a lui intitolato, quando lascerà lo Studio Ovale. Detto fatto, a metà di questa settimana il Pentagono ha annunciato di aver formalmente accettato l’aereo, che ora dovrà essere sottoposto a una costosissima e complessa operazione di bonifica da eventuali cimici (fidarsi è bene, non fidarsi è meglio) e di adeguamento tecnologico, per metterlo al passo con tutti i severi requisiti di sicurezza previsti per l’Air Force One.

La notizia ha scatenato le ire dell’opposizione democratica, ma suscita critiche anche fra i repubblicani e solleva qualche perplessità perfino negli analisti vicini al popolo Maga, come Ben Shapiro e Laura Loomer. “E’ una tangente mascherata da regalo”, ha detto Richard Painter, che fu l’avvocato responsabile per le questioni etiche nell’Amministrazione di George W. Bush. Per Painter, “è come se Re Giorgio III avesse donato a George Washington una copia della carrozza reale per il suo uso personale: forse che i padri fondatori non l’avrebbero considerata corruzione?”.

La Costituzione americana proibisce ai presidenti e a chi occupa cariche pubbliche federali di accettare regali o “emolumenti” da leader stranieri senza l’approvazione del Congresso. La regola in vigore applicata dall’Amministrazione dei Servizi generali è che nessun eletto federale possa ricevere da un governo straniero doni di valore superiore a 480 dollari.

Il che equivarrebbe a quasi un milionesimo del costo del Jumbo qatarino. Eppure, secondo l’Attorney General Pam Bondi e il capo della squadra legale della Casa Bianca David Warrington, il regalo dell’emiro è “legalmente permesso”, a condizione che il trasferimento di proprietà al Museo presidenziale avvenga prima della fine del mandato di Trump. Ma la motivazione scandalizza gli esperti: “Se gli Stati Uniti lo tenessero quando Trump finisce il mandato, sarebbe un regalo allo stato, ma se lo porta con sé nel suo Museo è un regalo a lui, quindi in violazione della Costituzione”, dice Richard Briffault, che insegna alla Law School della Columbia University. Ma qui non vogliamo soffermarci troppo sulla pur evidente dubbia natura del gesto e sul rapporto quantomeno disinvolto di Donald Trump con l’etica e l’integrità del suo ufficio.

In verità è dalla notte dei tempi che regali e diplomazia sono andati a braccetto, molto prima delle photo opportunity e delle conferenze stampa: sovrani, presidenti e dignitari si sono sempre scambiati gioielli e tessuti preziosi, quando addirittura non offrivano le figlie in moglie come pegno dei buoni rapporti. Succede dall’epoca del cavallo di Troia, archetipo della diplomazia dell’inganno, “timeo Danaos et dona ferentes”. Gli imperatori bizantini donavano frammenti della croce originale di Cristo ai governanti cristiani d’Europa, i re di Francia elargivano porcellane di Sévres, i sovrani spagnoli prediligevano dipinti gran formato dei loro maestri, i sultani della Sublime Soglia preferivano tuniche di broccato di seta. I regali diplomatici addolciscono, massaggiano l’ego, seducono, divertono, ma soprattutto legano. Sono espressioni di stima, leve di amicizia, gesti di pentimento, richieste di perdono, molto spesso strumenti di concussione per ottenere favori in cambio.

I regali diplomatici addolciscono, massaggiano l’ego, seducono, divertono, ma soprattutto legano

Una caratteristica che attraversa l’intera storia dei regali diplomatici è la ricerca dell’originalità. Gli animali esotici, per esempio, sono stati per secoli usati per questo scopo. Molto popolari durante il Rinascimento erano le giraffe. Il Sultano mamelucco Qaitbay ne offrì una a Lorenzo de’ Medici nel 1487, per accelerare la firma di un trattato commerciale con la Signoria fiorentina, come testimonia un quadro del Vasari. Diversi secoli dopo, nel 1826, Muhammad Ali Pasha, governatore ottomano dell’Egitto, volle inviare al re di Francia Carlo X un esemplare dell’artiodattilo per ottenerne l’appoggio militare. La povera giraffa viaggiò in nave da Alessandria a Marsiglia, dovettero fare un buco sulla coperta per farle sporgere il collo. Venne poi portata a Parigi a piedi, con una processione che comprendeva anche molte mucche per fornire i quasi cento litri di latte necessari ogni giorno per nutrirla. Nella capitale francese visse per molti anni nel Jardins des Plantes e ispirò anche la moda di una carta da parati maculata.

Tornando al Rinascimento, celebri sono i sette castori che la città di Reval, l’attuale Tallinn, capitale dell’Estonia, regalò nel 1489 al re Hans di Danimarca e Norvegia. Reval era una delle città della potente Lega Anseatica, l’alleanza che tra il XIII e il XVI secolo dominò i commerci nell’Europa settentrionale e nel mar Baltico. Quando Hans ascese al trono danese nel 1481 e poi due anni dopo a quello norvegese, cercò di indebolire il potere della Lega. Nel tentativo di placarlo, convincendo ad assumere atteggiamenti meno ostili, Reval gli mandò come regalo personale appunto sette castori, estinti in Danimarca da secoli e considerati preziosissimi non solo per la loro pelliccia, ma anche per il castoreum, l’olio prodotto dalle ghiandole dell’animale, considerato terapeutico nell’Europa medievale e ancora oggi usato nella profumeria.

Più di recente, nel 1972, durante la cena di stato in occasione della storica visita di Nixon in Cina, la first lady Patricia confidò a Zhou Enlai di avere una passione per i panda. Come gesto di buona volontà, il premier cinese ne regalò alla coppia presidenziale due esemplari giganti, Ling-Ling e Hsing-Hsing, che per i successivi vent’anni vissero allo zoo di Washington, attirando milioni di visitatori. E il resto è storia, perché da allora la diplomazia dei panda è stato uno dei più formidabili strumenti del soft power del Dragone.

Non certo esotico ma in parte efficace sul piano personale era stato anche il cagnolino bianco che il leader sovietico Nikita Krusciov diede a John F. Kennedy in occasione del loro tempestoso vertice a Vienna nel 1961. C’era un fondo di provocazione: Pushinka, si chiamava così, era infatti un cucciolo di Laika, la prima cagnetta inviata dai russi nello spazio. Un modo malizioso per ricordare: ci siamo arrivati prima noi. Ma Kennedy accettò di buon grado il canide, che dopo la Casa Bianca visse nel buen retiro di famiglia a Cape Cod, nel Massachusetts.

Non sempre però gli animali, quelli esotici, hanno funzionato. Nel 2013, in visita nel Mali, il presidente francese Francois Hollande si vide offerto in dono un graziosissimo cucciolo di cammello. Ma poiché non poteva portarlo a bordo dell’Airbus di stato, lo lasciò in custodia a una famiglia maliana. Qualcosa non fu chiara, perché la povera bestia finì cucinata in uno stufato in occasione di una festa familiare.

Al di là del regno animale, gli esempi di regali diplomatici che hanno fallito nel loro intento abbondano. Nel 1935 Adolf Hitler decise di ingraziarsi il Maharaja Bhupinder Singh, potente principe dello stato indiano del Patiala, nel tentativo di convincere l’India a rimanere neutrale mentre l’Europa già si incamminava verso una nuova guerra. Il dittatore nazista gli regalò una lussuosa Maybach, il massimo della tecnologia tedesca dell’epoca, ma il dono si rivelò un totale imbarazzo per tutti. Il Maharaja accettò l’automobile, che però fu chiusa in un garage, mentre il suo sostegno alla corona inglese rimase indenne. Sempre in tema d’auto, un effetto sicuramente positivo sulla distensione tra Stati Uniti e Unione sovietica lo ebbe la Cadillac Eldorado che nel 1972 Richard Nixon regalò al segretario del Pcus Leonid Breznev, grande patito di automobili made in Usa. Due anni dopo il presidente americano raddoppiò, facendogli trovare al vertice di Camp David una Lincoln Continental, che Breznev volle subito provare negli stretti tornanti del ritiro presidenziale del Maryland, guidando a tutta velocità con accanto un Nixon terrorizzato. “Se guardiamo indietro alla Storia – spiega l’ambasciatore britannico Paul Brummell, che sul tema ha scritto un magnifico libro – i regali diplomatici erano al centro delle preoccupazioni di re e governanti. Non si risparmiavano”.

Sempre in tema d’auto, un effetto sicuramente positivo sulla distensione tra Stati Uniti e Unione sovietica lo ebbe la Cadillac Eldorado che nel 1972 Richard Nixon regalò al segretario del Pcus Leonid Breznev, grande patito di automobili made in Usa

E a proposito della continua ricerca dell’originalità, le stranezze sono sempre state una costante. Quando nel 1498 Vasco da Gama arrivò in India, la Repubblica di Venezia capì che ne sarebbe derivata una minaccia esistenziale al suo fiorente commercio di spezie con il sultanato mamelucco in Egitto. Così, tra il 1502 e il 1512, la Serenissima inviò ripetute missioni presso il Sultano Qansuh al-Ghuri per convincerlo ad agire contro i portoghesi. I veneziani arrivarono pieni di doni, fra cui centocinquanta tuniche di velluto e seta trapunte d’oro, ogni sorta di pellicce comprese quelle di 4500 scoiattoli e soprattutto cinquanta forme di formaggio, molto probabilmente grana, secondo alcuni storici. Che si trattasse di parmigiano invece è sicuro nel caso di Papa Giulio II, che nel 1511 ne donò cento forme al giovane re d’Inghilterra Enrico VIII, per ringraziarlo della sua adesione alla Lega Santa antifrancese. Il pontefice non sarebbe vissuto abbastanza per vedere lo scisma anglicano che vide Enrico protagonista.

Anche i gioielli hanno svolto un ruolo molto rilevante. Fu un diamante da 88,7 carati, oggi conservato in un museo di Mosca, a risolvere la grave crisi diplomatica tra la Russia zarista e l’Iran nel 1829. Sotto la guida di Nicola I, l’espansione russa nella prima metà del XIX secolo era avanzata nel Caucaso, fino a Tabriz, nel nord-ovest iraniano. Sconfitto sul campo, lo shah dell’epoca, Fath-Ali Qajar, accettò il diktat russo e firmò un trattato di pace.

Plenipotenziario russo era il drammaturgo e diplomatico Alexander Griboedov, che fu incaricato di recarsi a Teheran per incontrare il sovrano iraniano. Ma i regali inviati dallo zar tardavano ad arrivare e quindi l’incontro dovette essere rinviato di giorno in giorno. Forse annoiato, il seguito di Griboedov si concesse qualche libertà di troppo. Due donne e un eunuco della corte lasciarono il palazzo reale per rifugiarsi nella missione russa. Quando si sparse la notizia, i mullah di Teheran incitarono il popolo alla rivolta per andarli a riprendere.

Nell’assalto, Griboedov e altri trentasette russi vennero sgozzati. Terrorizzato dalla rappresaglia dello zar, lo shah inviò suo figlio a San Pietroburgo con lo straordinario diamante. Lo zar accettò il dono e si disse convinto che Fath-Ali Qajar non c’entrava nulla con il massacro.

Il regalo del jumbo qatarino a Donald Trump fa sicuramente fare all’usanza un salto indietro nel tempo, a quando re e sovrani facevano a gara nel superarsi senza inutili dilemmi etici. D’altronde se n’era già vista traccia nel primo mandato di Trump: in occasione del suo viaggio in medio oriente del 2017 aveva ricevuto dall’Arabia Saudita ben 83 regali, fra i quali spade intarsiate di pietre preziose, pellicce di tigre, sciarpe, tessuti preziosi e molte paia di sandali. Nessuno di questi doni è stato mai denunciato al Dipartimento dei Servizi Generali. Ma il Boeing da 400 milioni è un’altra cosa. Se andasse a buon fine, vedremo in cambio di cosa, cosa verrebbe dopo? Un’isola? Un superyacht? Nel mondo che Trump sogna, in cui uomini forti negoziano tra di loro accordi transattivi come fossero una trattativa immobiliare, anche l’antica pratica del regalo diplomatico milionario, versione Mar-a-Lago, torna in auge. Anzi, ne è l’ovvio corollario.

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