Dalla cattura del momento decisivo alla resa di un’esperienza incoerente. Gli scatti di Meyerowitz in mostra
Dice che subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York l’unico fotografo a cui il sindaco aveva permesso di avvicinarsi al sito delle rovine è stato Joel Meyerowitz, newyorkese da sempre nato nel Bronx nel 1938 da una famiglia di ebrei immigrati. E dice che il regista tedesco Wim Wenders era così ossessionato dalle immagini della più profonda ferita della storia americana da volare nella Grande Mela per cercare anche lui di “testimoniare il tempo”: “Joel ci andava ogni giorno. Essere presente e seguire i lavori era per lui un preciso dovere. Fu molto generoso e un giorno mi portò con sé. Fece una fotocopia del suo permesso in cui mi inserì come suo “assistente”. Andammo a Ground Zero il mattino presto e ci restammo diverse ore. Joel conosceva ogni vigile del fuoco per nome. Ce n’erano molti che lavoravano lì, spalando macerie e soprattutto cercando resti umani”.
L’osservazione compassionevole del mondo e la capacità di catturare attimi fugaci hanno fatto di Meyerowitz uno dei grandi nomi della fotografia mondiale, anche se ingiustamente viene indicato solo come importante esponente della street photography, insieme a Tony Ray-Jones e Garry Winogrand. Tuttavia questo elegante e arzillo ottantasettenne non solo ha saputo cogliere l’essenza della vita urbana della sua amata New York, ma è stato anche capace di descrivere il senso di intimità dei tanti momenti di vita che ha catturato, e di rappresentarne al meglio il colore e la luce. I 90 scatti in mostra al Museo di Santa Giulia di Brescia (curata da Denis Curti, fino al 24 agosto), all’interno del Brescia Photo Festival, sono l’occasione perfetta per celebrare uno degli ultimi grandi maestri viventi. “Joel Meyerowitz. A Sense of Wonder. Fotografie 1962-2022” è il racconto straordinario di una ordinaria devozione all’osservazione e alla comprensione della meraviglia del mondo, dai suoi primi scatti in bianco e nero all’inaspettato passaggio al colore, che negli anni 60 sembrava impensabile per un fotografo non commerciale, fino ai paesaggi, ai ritratti e perfino all’intimo e delicato diario del lockdown passato con la moglie nella loro casa in Toscana.
Dice che l’allora riccioluto Joel aveva studiato pittura e illustrazione medica all’Ohio State University ma era tornato nella città natia per lavorare come art director in una piccola agenzia di pubblicità, per pagare le bollette e per frequentare la scena artistica newyorkese. Il suo capo, Harry Gordon, lo aveva mandato a seguire gli scatti del mitico fotografo Robert Frank per un opuscolo pubblicitario. Joel non lo conosceva, ma l’esperienza fu una sorta di epifania: fu scioccato dal modo a tratti incomprensibile in cui Frank con la sua Leica scattava foto alle due giovani modelle senza quasi parlare, solo accennando e proponendo movimenti del corpo come una sorta di danza, un flusso ritmico, dentro e fuori l’azione delle due ragazze. Alle sue conferenze di oggi gli occhi gli si illuminano di pura gioia, pur sessant’anni dopo quel momento: “Sentivo il clic clic clic e ogni volta avveniva quando la ragazza faceva qualcosa, si spazzolava i capelli o si chinava e faceva una smorfia. I piccoli gesti sembrano avere un significato o un potenziale significato. Ed era sorprendente per me stare in piedi dietro di lui e aspettare il clic al momento giusto. Ho iniziato a percepire questa anticipazione, a dire a me stesso, come un gioco, ora e lui faceva clic”. Il suo capo pensa che qualcosa sia andato storto quando il giovane pubblicitario aspirante pittore torna in ufficio e dà immediatamente le dimissioni, ma Joel gli dice che non è successo nulla di negativo, anzi, che ha capito di voler fare il fotografo, anche se non ne ha mai scattata una. “Schmuck!”, gli dice Gordon, “cretino” in yiddish, “se vuoi fare delle foto hai bisogno di una macchina fotografica”. Apre un cassetto e gli dà la sua Pentax.
E’ il 1962 e il giovane Joel esce in strada con la Pentax prestata e la realtà stessa gli sembra diversa, più libera, come la musica jazz che si suona in quegli anni. Non a caso Jack Kerouac, la voce più musicale della beat generation, descrive la fotografia di Robert Frank nell’introduzione al libro “Gli Americani” (Contrasto) come “quella folle sensazione in America, quando il sole picchia forte sulle strade e ti arriva la musica di un jukebox o quella di un funerale che passa”. Ogni gesto, ogni azione, una mano alzata al cielo per bloccare un taxi, uno sguardo di traverso di un uomo con un cappello, è carico di potenziale. Ma ben presto Joel si accorge di un’altra questione piuttosto scottante: tutti i grandi scattano in bianco e nero, Frank, Walker Evans, il gigante Henri Cartier-Bresson, che fare? “Ero giovane e inesperto e non mi rendevo conto che esisteva una questione fastidiosa riguardo al colore nel serio mondo della fotografia. A quei tempi, il colore era considerato troppo commerciale, troppo da dilettante o semplicemente troppo sgargiante”, racconta lui nella mostra al Museo di Santa Giulia.
Alcuni dei suoi scatti in bianco e nero degli anni 60 catturano l’essenza della vita in modo così singolare da essere diventati parte dell’immaginario della cultura americana, come l’uomo che passeggia con un enorme barboncino bianco in braccio che lo sovrasta, o la signora elegante vestita di nero con una cattedrale di capelli bianchi. Sono i famosi “momenti decisivi” teorizzati da Henri Cartier-Bresson, il più elegante e geniale fotografo di sempre di cui Joel segue immediatamente le orme. In un’intervista a Michael Grieve del 2017 Meyerowitz racconta la sua infatuazione per una foto scoperta nell’imprescindibile libro di Cartier-Bresson “The Decisive Moment (Images à la Sauvette)”: “E’ una risposta visiva a quasi nulla. Non c’è dramma, solo il vuoto di ombre e luci in una strada vuota tra due bambini, che emana qualcosa di vago e ambiguo eppure profondo. Tony Ray-Jones e io lo abbiamo visto lavorare. Si muoveva come un ballerino, scattando foto a una parata di strada a New York”, racconta Meyerowitz, “Era sveglio, sicuro di sé e vestito in modo elegante, con una sottile cinghia di pelle avvolta intorno al polso, mentre noi eravamo ragazzini arruffati con barbe e capelli lunghi che tenevano le loro reflex Pentax con cinghie spesse e ingombranti intorno al collo. Si avvicinava alle persone, ma loro non sapevano che le stava fotografando. Da allora tengo la macchina fotografica allo stesso modo del Maestro!”
Alcuni dei suoi scatti in bianco e nero degli anni 60 catturano l’essenza della vita in modo così singolare da essere diventati parte dell’immaginario della cultura americana
Un altro insegnamento di vita che Joel adatta alla sua fotografia gli viene dal padre, a cui nel 1997 ha dedicato il toccante e ironico documentario “Pop”, filmando il loro viaggio in auto dalla Florida a New York alla ricerca dei ricordi del vecchio genitore che stanno scomparendo con l’Alzheimer. Hy Meyerowitz, boxeur amatoriale, da ragazzo lo aveva addestrato a difendersi dalle gang del Bronx di quegli anni piuttosto rudi. “Pay attention”, gli ripeteva, fai attenzione: “Pop mi ha sempre detto che le persone telegrafano quello che stanno per fare”, racconta Meyerowitz in una sua Masterclass di fotografia, “devi solo saperle guardare per capire cosa stanno per fare. Quell’incoraggiamento a un ragazzino, fai attenzione, il mondo ti parlerà di sé stesso, fu una notizia sorprendente per me”.
In mostra ci sono anche una serie di foto scattate in parallelo, una da una macchina con un rullino a colori e una in bianco e nero: due persone che parlano in strada viste dalla finestra di un appartamento, un uomo in costume in un giardino che guarda qualcosa lontano, i passeggeri di un autobus seduti accanto al finestrino. Meyerowitz ci permette di vedere con i suoi occhi, di giocare con la sua astuzia, di scegliere la parte di mondo che ci piace di più. Ed è proprio questo esperimento di verità che lo porta nel 1962 ad abbracciare totalmente il colore come elemento essenziale e descrittivo della realtà, cosa che influenza anche alcuni suoi contemporanei (su tutti, l’altro maestro del colore William Eggleston) definendo il suo stile in modo riconoscibilissimo.
L’uso di pellicole a colori Kodachrome lo costringe a rivedere la profondità di campo che il bianco e nero gli assicurava, e fa qualche passo indietro rispetto all’azione: “Stavo cercando di liberare la fotografia dall’estetica del momento decisivo”, dirà di quegli anni, “una cosa difficile da abbandonare, e di avvicinare la fotografia all’esperienza stessa, che è incoerente e irrisolta in modi che prima ero stato riluttante ad affrontare”. Alla fine degli anni 60 definisce la sua field photography, la fotografia dell’intero campo visivo, ovvero scatti descrittivi dove si incrociano nella stessa inquadratura strada, case, persone, cieli. Sono composizioni molto articolate dove il colore e la complessità ritmica della strada sono sullo stesso piano. In un celebre scatto del 1963 ci sono sette persone sedute sui gradini e sul muretto di una casa di New York, adulti e bambini, e ognuno guarda in una direzione diversa e opposta ma tutti sembrano aspettare la stessa cosa. In “Malaga, Spain”, scatto del 1967, un cavallo bianco cade da un carretto ma la testa rimane impigliata in una corda tesa nella direzione opposta, come a staccargliela, mentre tutti i passanti guardano altrove, fuori campo, qualcosa di invisibile. “Una fotografia è un’interruzione del nostro flusso del tempo”, ha detto in un’intervista il fotografo, “siamo scossi dal nostro stato di sogno per un breve momento di coscienza, dove vediamo improvvisamente con la chiarezza di un neonato che è dotato di un occhio antico”.
Lo scrittore inglese Geoff Dyer, grande appassionato di fotografia, descrive in modo colorito la New York degli anni 60 nel suo saggio sulla fotografia “L’infinito istante” (Saggiatore, 2022): “Si ha l’impressione che la città fosse così affollata di fotografi che sulla Quinta strada dovevano passare tutto il tempo a urtarsi a vicenda”. Nonostante l’ebbrezza dello stare in giro da una parte all’altra della città per Meyerowitz si apre un nuovo capitolo della sua esistenza con l’acquisto di un pesante banco ottico 8×10 con cui esce dalla città va a fotografare la luce, il cielo, il mare di Cape Cod, Massachusetts: un’ennesima rivoluzione che rivela la bellezza quotidiana della piscina di un motel, di una pompa di benzina, di un tramonto sul mare.
Uscito dal Museo di Santa Giulia di Brescia mi fermo in un caffè e noto un signore elegante con un cappellino pork-pie che lavora al computer portatile. Mi sembra proprio Meyerowitz in persona ma non voglio disturbarlo. Quando vado a pagare però anche lui si avvicina alla cassa e non posso non salutarlo. “Joel?”, chiedo per evitare gaffe e lui dice di sì. “Ho visto la sua mostra”, continuo io. Ma lui tentenna e dice: “No, forse è un’altra persona”. Il barista mi riconsegna il bancomat che infilo nel portafogli. Mi rigiro e all’improvviso quel signore con il cappellino non c’è più. Forse non era lui, mi dico, o forse sì, ma è svanito all’istante, quell’istante decisivo che tanti percepiscono ma che solo pochi riescono a catturare. Quel sentimento di meraviglia casuale che si può trovare ogni giorno in ogni strada, in uno sconosciuto, in un caffè.