Campo largo, una tesi in discussione

Il centro riformista insieme ai Cinque stelle per battere Giorgia Meloni? Un’alleanza utile per vincere e per contare. No, una pentola a pressione pronta a esplodere. Gli studenti universitari rispondono all’idea di Matteo Renzi

Abbiamo chiesto agli studenti universitari cosa ne pensano dell’idea, lanciata da Matteo Renzi, legata al prossimo vero referendum, non quello dell’8 giugno, ma quello delle prossime politiche. Renzi sostiene che le opposizioni, senza fronzoli, devono andare tutte insieme. Ha ragione? Qui di seguito le risposte di alcuni studenti.



Ogni esperimento di campo largo ha prodotto stalli, ambiguità e sconfitte

L’idea di Matteo Renzi di un’alleanza anti Meloni che comprenda anche Giuseppe Conte è l’ennesima conferma della crisi del pensiero strategico nella politica italiana. Più che una proposta politica, sembra un riflesso pavloviano: un centro che, non sapendo costruire un’identità autonoma e frammentandosi dall’interno, cerca riparo nell’emergenza. Eppure, l’urgenza di “battere le destre” non può giustificare ogni contraddizione. Unirsi a Conte per fermare Meloni equivale a negare la ragion d’essere del centro riformista. I neogrillini hanno espresso, negli anni, una cultura politica giustizialista, antieuropea e spesso antindustriale, incompatibile con ogni progetto liberaldemocratico. La convergenza tattica può forse portare qualche seggio in più, ma al prezzo di dissolvere ogni coerenza, per non parlare di quanto poco esecutivo sarebbe un esecutivo dai mille colori (la storia politica recente parla da sé). Non è un caso che ogni esperimento di “campo largo” abbia prodotto stalli, ambiguità e sconfitte. Il paradigma delle elezioni-referendum è poi un errore analitico prima che politico. Significa accettare la centralità dell’avversario, legittimarla come perno del sistema. La politica si riduce così a una reazione, anziché a una proposta. E in assenza di visione, è la leader di Palazzo Chigi a dettare i confini del confronto. Chi ambisce a costruire un’alternativa credibile non può rincorrere scorciatoie emotive. Serve un lavoro lungo, impopolare, fatto di cultura politica e no, di classi dirigenti all’altezza e di parole nuove. La scorciatoia del fronte comune è, ancora una volta, un modo per rimandare quella fatica.

Luigi Rossi

Firenze, laureando in Scienze politiche e futuro studente magistrale Luiss di Relazioni internazionali



Com’è cambiato Renzi: non è più il “Royal Baby”


Il centro liberaldemocratico italiano appare sempre più dilaniato e scomposto. I suoi leader, segretari e presidenti di partito, segnati da risultati tutt’altro che positivi alle ultime elezioni europee, stanno rilasciando dichiarazioni che ci fanno capire di tutto, fuorché un posizionamento comune. Tantomeno una strategia realmente orientata a conquistare una futura rappresentanza parlamentare significativa o, ancora più ambiziosamente, a proporsi come credibile alternativa di governo. Siamo alla scissione dell’atomo.


Il senatore Matteo Renzi, nell’intervista rilasciata a Maurizio Crippa sul Foglio di lunedì, ha affermato che, chiuso questo quinquennio di governo, il presidente del Consiglio e l’intera maggioranza verranno giudicati dal popolo italiano votante, e ha rinnovato la sua disponibilità ad allearsi con il M5s, alludendo al campo largo. Una dichiarazione che lascia intendere, da parte del leader di Italia viva, una lettura delle prossime elezioni meno come confronto tra partiti politici – l’elemento ordinario in una democrazia pluralista e ben ordinata – e più come una sorta di stress test sul gradimento del governo Meloni e della maggioranza che lo sostiene. Un’impostazione che rischia di snaturare il senso stesso delle elezioni politiche, riducendole a un referendum sulla premier e svuotandole della loro funzione originaria: la competizione elettorale fatta di idee, scelte e leadership, dalla politica estera alla questione dei dazi, passando per la giustizia e le riforme economiche.


Sulla scelta di schieramento è molto cambiato rispetto a quanto conoscevamo. E’ un Renzi ben diverso da quello raccontato da Giuliano Ferrara in “Il Royal Baby”: pieno di sogni, visioni e sistematicamente avverso ai Cinque stelle. E tuttavia, qui comprendo la sua posizione dettata dalle circostanze, pur non appoggiandola: l’ambizione di far sentire la propria voce è legittima, in un sistema elettorale che premia le alleanze. Ma vengo al punto: questo fantasioso campo largo, diviso su tutto e unito su nulla, è davvero ciò di cui l’Italia ha bisogno? Tra chi vorrebbe radere al suolo il Jobs Act e chi, al Tg1, lo definisce ancora come “una vittoria”; tra chi fa grandi annunci di tavoli negoziali in Ucraina per cessare le ostilità e chi, invece, vota e comizia per l’invio dei rifornimenti militari. L’impressione è quella di una coalizione non coesa, priva di fondamenta solide, che inevitabilmente premierà di nuovo il centrodestra, il quale, nei sondaggi più freschi, vanta un distacco percentuale di oltre venti punti.

Davide Castelli

Università degli studi di Milano, facoltà di Scienze politiche



Terzo polo unito al M5s? Una pentola a pressione pronta a esplodere

“Per vincere l’opposizione deve andare unita”, come dare torto a Renzi? Alla fine si tratta di semplici calcoli matematici. Tuttavia questa affermazione dovrebbe farci interrogare sul vero obiettivo dei partiti politici: vincere le elezioni o formare una maggioranza di governo in grado di guidare stabilmente l’Italia?


Se il primo caso dovesse prevalere sul secondo, vedremmo un campo largo, anzi larghissimo, in disaccordo su tutto, fondato su un solo punto comune: il dissenso con la destra. Costruire un’alleanza che veda l’ex Terzo polo unito al Movimento 5 stelle significa dare vita a una pentola a pressione pronta ad esplodere. Insomma, il risultato sarebbe un miscuglio di politici pro Ucraina e di finti pacifisti, di posizioni cosiddette militariste e antimilitariste, di visioni europeiste e antioccidentali; in campo energetico vedremmo litigi tra chi vuole il nucleare e chi è contro, mentre all’ordine del giorno ci sarebbero le frecciatine per ricordare i miliardi sprecati nel Superbonus e nel Reddito di cittadinanza.


Un fattore non trascurabile spaventa ulteriormente: ad agire come mediatore principale tra l’ex Terzo polo ed il Movimento 5 stelle dovrebbe pensarci il Partito democratico, una forza politica molto rilevante, che però oggi soffre più che mai di enormi divisioni interne. Tra progressisti e riformisti, il partito guidato da Elly Schlein è il primo a necessitare di una seria operazione di riconciliazione.


La situazione appena descritta si potrebbe davvero definire una vittoria contro la destra? O si tratterebbe solamente di un’interruzione del governo Meloni attraverso una scoordinata ammucchiata? Non rischierebbe di danneggiare ancora di più la credibilità della sinistra?


“Le alleanze si fanno con i diversi”, è vero, ma solo se essi trovano punti di incontro e riescono a cooperare in modo razionale e utile alla nazione, altrimenti tali alleanze sono solo scudi ideologici facilmente attaccabili. Chiedere all’elettorato di avere fiducia in una coalizione così variopinta non può che regalare i voti degli italiani ai partiti di destra, che sia nel breve o nel lungo termine. E’ una questione di realismo.

Samuele Braguti

studente di Mediazione linguistica e culturale all’Università degli Studi di Milano



Un’alleanza tra diversi? Sì, purché fondata su obiettivi concreti

Le prossime elezioni saranno, di fatto, un referendum su Giorgia Meloni. Lo ha affermato Matteo Renzi, lanciando un segnale politico netto: per sfidare davvero la premier serve un’alternativa solida, ampia e credibile. Anche a costo di allearsi con ex avversari come Conte. Una scelta importante, che però apre una domanda seria: unire forze così diverse è davvero possibile e utile?


Renzi ha ribadito un principio che in politica ha spesso fatto scuola: le alleanze si fanno con i diversi. E’ un ragionamento pragmatico, che trova precedenti in quasi tutte le esperienze di governo della Seconda Repubblica come l’Ulivo, unione di culture politiche distanti tra loro, ma capace di offrire una visione di paese alternativa alla destra. Tuttavia, nel campo dell’opposizione attuale il quadro è più complicato. Renzi non ha mai nascosto le critiche a Giuseppe Conte e al Movimento 5 stelle, soprattutto su temi come il reddito di cittadinanza o la gestione della pandemia.


Dire che le prossime elezioni saranno un “referendum su Meloni” significa che l’attuale premier sarà il perno dello scontro politico. Non solo perché guida il governo, ma perché è diventata il volto simbolico di una destra che governa quasi incontrastata. Dunque, in uno scenario così polarizzato, l’opposizione non può permettersi di dividersi ulteriormente.


Per questo motivo, serve una proposta solida con un programma politico chiaro, anche se naturalmente tutto ciò non è semplice. Le coalizioni non sono fusioni, ma alleanze tra identità diverse, che si mettono insieme per raggiungere un obiettivo comune, cioè sfidare un governo che oggi, in assenza di una vera opposizione unita, continua a rafforzarsi.


Allora sì, un’alleanza tra diversi come Renzi e Conte, potrebbe avere senso. Ma solamente se fondata su obiettivi concreti e una visione comune. Altrimenti il rischio è quello di presentarsi agli elettori come un’unione fragile, costruita solo per battere Meloni.

Aurora Forlivesi

studentessa del corso di laurea magistrale in Comunicazione giornalistica, pubblica e d’impresa, Università di Bologna


Non si tratta di annacquare le idee, ma di contare. E per contare bisogna unirsi

Nel dibattito politico italiano si fa spesso finta di dimenticare una verità tanto semplice quanto scomoda: le elezioni non si vincono con la purezza ideologica, ma con le alleanze. E’ su questo che Matteo Renzi ha centrato il punto nei giorni scorsi, dichiarando che le prossime elezioni saranno un referendum su Giorgia Meloni e che, per batterla, serve un’opposizione unita. Anche con Giuseppe Conte. Parole forti, che fanno storcere il naso praticamente a tutti, dalle bimbe di Conte ai renziani doc, ma che fotografano con lucidità una realtà che la maggioranza ha già capito da tempo. Meloni governa con Salvini, leader di una Lega postfascista in piena crisi identitaria, e con Maurizio Lupi, erede del moderatismo democristiano più vecchia scuola. Se questo è possibile a destra, perché non dovrebbe esserlo a sinistra o al centro? Renzi non chiede fusioni ideologiche, ma convergenze strategiche. In fondo, le alleanze si fanno “con i diversi” – come lui stesso ha ricordato – e per obiettivi comuni, non per affinità di anime. Nessuno chiede a Carlo Calenda di condividere la visione economica del M5s o a Conte di applaudire il Jobs Act. Ma l’obiettivo di battere Meloni è, o dovrebbe essere, superiore alle reciproche diffidenze. Certo, serve un baricentro. E quel baricentro non può che essere il Partito democratico. E’ il Pd il vero perno attorno a cui deve ruotare l’accordo: per peso politico, radicamento territoriale e capacità di tenere insieme le anime diverse dell’opposizione. Senza un Pd protagonista e inclusivo, nessun fronte largo potrà davvero decollare. La realtà è che un Terzo polo isolato non ha i numeri per essere decisivo. E il M5s, da solo, non riesce a intercettare quella fetta di elettorato moderato e riformista che ancora non trova casa. Un’alleanza – anche tecnica, anche temporanea – può diventare il grimaldello per restituire all’opposizione un peso concreto. Non si tratta di annacquare le idee, ma di contare. E per contare, oggi, bisogna unirsi. Renzi ha detto ciò che molti pensano e pochi hanno il coraggio di ammettere: o si costruisce un fronte largo e plurale, con il Pd al centro, oppure Meloni governerà indisturbata per un decennio. E a quel punto, le battaglie di principio varranno poco.

Gerardo Jr Maccauro

studente di Lettere moderne in Sapienza


Il problema non è solo la sinistra, è anche il sistema elettorale che ha voluto

Le parole di Renzi suonano familiari: pur di evitare una nuova vittoria del centrodestra, propone un’alleanza larga, che includa anche il M5s di Conte. “Le alleanze si fanno con i diversi”, dice, e in linea teorica ha ragione. Ma in pratica, la realtà delle prossime elezioni sarà ben diversa.


L’idea di un fronte unito contro Meloni affascina molti nel centrosinistra. Anche ammesso che Partito democratico, Movimento 5 stelle, Italia viva e Alleanza verdi e sinistra si presentino insieme alle urne, come si potrebbero mai accordare sui temi fondamentali? Certo, una coalizione di volonterosi (se così la vogliamo chiamare) potrebbe anche vincere in un cosiddetto referendum sulla Meloni. Ma come governerebbe? All’interno conviverebbero anime opposte: chi sostiene l’Ucraina e chi simpatizza per la Russia, chi vuole rafforzare l’Ue e chi vagheggia un ritorno alla lira. Quali obiettivi comuni possono esistere tra chi flirta con il sovranismo e chi ne è il principale avversario?


Il punto – o l’obbiettivo – non dev’essere solo vincere ma anche governare. E l’esperienza insegna che la sinistra, quando va al governo divisa, cade in fretta: basti pensare alle scissioni e rotture degli ultimi anni. Fin quando l’opposizione non saprà costruire una sintesi politica vera, capace di superare personalismi e differenze ideologiche, ogni alleanza sarà pura illusione.


Forse il problema non sta solo nella sinistra, ma nel sistema elettorale da lei voluto. Finché resterà il Rosatellum, la strategia sarà sempre coalizionale. Solo un ritorno al proporzionale potrebbe liberare i partiti dall’ossessione per l’unità forzata: se ciascuno corresse da solo, si potrebbero avere governi più coesi, uniti davvero su basi ideologiche e non su artificialità ideologiche quali destra e sinistra. Tornando al sistema attuale, però, la destra – pur non monolitica – ha imparato a marciare compatta, e se la sinistra vuole tornare competitiva, deve prima imparare a dialogare. Altrimenti, più che un referendum su Meloni, le prossime elezioni saranno l’ennesimo autogol dell’opposizione.

Oliver Hearn

Università di Cambridge


Oggi ai partiti progressisti sono rimasti solo i diritti civili e l’ambientalismo

La “sinistra” delle istanze rivendicate dagli eredi della Resistenza non appartiene, in alcun modo, alle dinamiche e alla vita dei giovani (e no) elettori contemporanei. Le lotte che furono centrali per intellettuali come Pasolini o Vittorini e per molti politici della Prima Repubblica, e dalle cui ceneri sono nati molti partiti della sinistra contemporanea, non ci appartengono. Oggi, ai partiti progressisti sono rimasti i diritti civili e l’ambientalismo. I diritti sociali non sono più al centro delle loro agende, o almeno così pare. Dagli anni Cinquanta a Tangentopoli, è stata la linea che Pci e Psi avevano su temi quali il diritto al lavoro – artt. 35/36 – o il diritto all’assistenza sociale e alla previdenza del lavoratore – art. 38 – a raccogliere il consenso (esclusa la breve parentesi post sessantottina, conclusasi con il sì del ‘78 al referendum sull’aborto). Oggi, l’ex Terzo polo, Pd, Alleanza verdi e sinistra e M5s hanno idee molto diverse su questi temi, che restano – ancora – centrali per i cittadini. Il Jobs Act di Renzi è incompatibile con il salario minimo della Schlein, il Reddito di cittadinanza, voluto dal M5s, è stato abolito anche grazie al voto di Calenda. Dunque, da una parte, assopita dai benefit che il capitalismo ha introdotto nelle nostre vite, è morta la “sinistra”, dall’altra, le alternative alla Meloni che gli esponenti seduti sulle poltrone dell’arco parlamentare – da centro a sinistra – presentano, non trovano una sintesi coerente (e coesa) sui temi che agli italiani interessano di più. Il centrosinistra concorde sulla “lotta al cambiamento climatico” che rivendica l’importanza dei diritti delle donne e della comunità Lgbtqa+, non è abbastanza appealing. Superati personalismi e protagonismi, i partiti d’opposizione dovrebbero, prima di tutto, trovare una linea politica comune, per veder tramontare l’epoca degli eredi dell’estrema destra al potere.

Francesca Rocca

Università la Sapienza, Roma


Per vincere, l’opposizione dovrebbe scoprire di esistere, per poi capire che cosa pensare

“Per vincere – dice Renzi – l’opposizione deve andare unita”. In una normal-democrazia liberale dominata dal principio dell’alternanza tra (due?) maggioranze omogenee nei riferimenti ideologici e nelle proposte politico-economiche, una frase come quella del senatore di Rignano avrebbe, al più, provocato una nuova capovolta nella bara di monsieur de La Palice. Nella Repubblica del Rosatellum, invece, le alternative dei lettori sono due: farsi una grassa risata senza troppi pensieri, o procedere con un’attenta esegesi dei fini del fu Terzo polo.


Infatti, prima di domandarsi con quale formula l’opposizione debba unirsi, occorre domandarsi se oggi esista un’opposizione degna di tal nome.


Può un partito che ha sostenuto la nuova denominazione del “ministero dell’Istruzione e del merito” e che la pensa (e vota) come la maggioranza su relazioni ministeriali, norme pandemiche, leggi penali, riforme istituzionali e, ora, sui referendum sul lavoro definirsi forza di opposizione e volerne addirittura tracciare la rotta?


A voler andare oltre l’ex premier (e quel che resta di Azione, fra traghettati e fuggitivi), guardando più a sinistra non c’è da gioire: immaginiamoci un’alleanza tra Conte, fiero populista di scuola leghista ma anche Robespierre dei giorni dispari, Fratoianni l’ambientalista alle prese con un’improvvisa necessità di distanziamento da Elon Musk e infine Schlein nel perpetuo vortice infernale di un partito di estrazione cattolica inventore del Jobs Act che non intende seguirla bensì sacrificarla sull’altare delle necessità. Praticamente una litigiosissima e immobile bomba a orologeria.


Per vincere, direbbe qualcuno, l’opposizione dovrebbe scoprire di esistere e, una volta scoperto, dovrebbe capire cosa pensare (e proporre). Garantismo o giustizialismo? Libero mercato o stato pianificatore? Agenzia della riscossione o Agenzia della repressione? Stato laico o diretta Conclave? Matrimonio egualitario o Unioni civili? Aborto sicuro per tutte o nicchiamo? Energia nucleare o idrocarburi a oltranza?


Quando un’opposizione riuscirà a rispondere a queste prime semplici domande, potrà chiamarsi tale e domandarsi con chi fronteggiare Meloni.


Fino a quel giorno, caro Renzi, l’opposizione potrà andare ovunque, ma non al governo del paese.

Paolo Gravina

Università telematica Pegaso


Un programma comune è possibile, a patto che si parta dai contenuti

Non è scandaloso, né incoerente, chiedersi se un’alleanza tra forze oggi divise, come lo sono il centrosinistra riformista e il Movimento 5 stelle, possa essere costruita su basi solide e condivise. Se le prossime elezioni saranno davvero un referendum sull’attuale governo (e lo saranno), allora l’opposizione ha il dovere di interrogarsi non solo su con chi intende correre, ma soprattutto su che cosa intende proporre.


Un programma comune è possibile, a patto che si parta dai contenuti. Perché è di contenuti che c’è bisogno. C’è bisogno di una riforma della concorrenza che affronti nodi storici, come il settore dei taxi o quello delle concessioni balneari, tutelando i diritti ma senza continuare a proteggere categorie privilegiate. Occorre rilanciare politiche industriali serie, aggiornare e ampliare strumenti come Industria 4.0, rafforzare l’integrazione europea, in un momento in cui l’Italia sembra sempre più tentata da una deriva illiberale.

Serve una transizione ecologica che sia sostenibile anche sul piano economico, evitando approcci ideologici ma senza cedere al greenwashing. E’ necessaria anche una gestione realistica e umana dei flussi migratori: una migrazione controllata, regolata e ben gestita può rappresentare una risorsa preziosa per il nostro paese, sia dal punto di vista demografico che produttivo. E, accanto a tutto questo, è tempo di garantire con coerenza più diritti civili, come il matrimonio egualitario, non per ideologia ma per giustizia.


Su molte di queste priorità possono esistere visioni compatibili, anche tra soggetti politici diversi. Le distanze non vanno negate, ma affrontate con pragmatismo, se si vuole costruire un progetto di legislatura e non una sommatoria di sigle. Non è una strada facile, ma è l’unica che possa davvero rappresentare un’alternativa seria al governo attuale.

Roberto Califano

studente magistrale di Ingegneria gestionale presso il Politecnico di Torino



L’antimelonismo è il solo collante, ma non può essere un programma

“Le alleanze si fanno con i diversi e per raggiungere obiettivi”, dice il senatore Renzi riferendosi all’apertura ai Cinque stelle in vista delle politiche del 2027. Questo è chiaro, se si è uguali si sta nello stesso partito, ma bisogna almeno intendersi su un minimo progetto comune. Il Terzo polo non esiste più, né vi sarà in futuro nella forma Renzi-Calenda (vedremo se Marattin, Calenda e le emersioni liberali fra cui il venturo Drin Drin di Boldrin & Forchielli riusciranno a combinare qualcosa). Italia viva ha già fatto la sua scelta, vedremo se ai Cinque stelle andrà bene, dati i continui contrasti a distanza fra i due leader (e ricordiamoci che Conte è stato abbattuto da Renzi). Renzi ha le sue idee, forse più liberali di destra che di sinistra, la sua popolarità è residuale, e cerca di salvarsi ancora una volta dallo sbarramento (nel ‘22 il pesce Calenda abboccò), rientrando nel campo largo e proponendosi come campione dell’opposizione al governo incapace (come in Senato poco tempo fa contro l’incoerenza meloniana). Col Rosatellum facendo ammucchiata si possono contendere i collegi del centrosud portando all’ingovernabilità o comunque a difficoltà per il centrodestra, sbarrando la strada a un Meloni bis, mentre con il plausibile premio di maggioranza sarà molto difficile, con un centrodestra che non si schioda dal 47-48 per cento. Ma, nel caso il campo largo vincesse, come potrebbe governare? Le proposte renziane sono troppo diverse da quelle dei Cinque stelle, incompatibili, per non parlare degli elettori, che sarebbero disincentivati a votare. Jobs Act, garantismo, riforma Nordio, premierato, nucleare, riarmo non possono andare a braccetto con giustizialismo, reddito di cittadinanza, salario minimo, no alle armi in Ucraina e transizione ecologica selvaggia. Crollerebbe subito il governo, troppo diviso. Ma se l’OBIETTIVO da raggiungere non è governare ma impedire un Meloni bis potrebbero avere un minimo spiraglio. L’antimelonismo è il solo collante, ma non può essere un programma.

Elia Bellucci

Storia, Università di Bologna



Leader dei partiti di centro, unitevi! E ricostruite il Terzo polo

Qualche mese fa, il partito ha deciso di collocarsi nell’area del “campo largo”, quel mucchio variegato di partiti che, dalla sinistra più radicale al Pd della Schlein, passando per il qualunquismo pentastellato, sono uniti da un solo obiettivo: far cadere il governo Meloni. Questo è, da sempre, il compito di ogni opposizione, ma l’altra grande missione dovrebbe essere quella di costruire un’alternativa credibile nei contenuti e nelle persone. L’attuale maggioranza, più che fare male, non ha proprio fatto alcunché di rilevante: non sono state portate a termine quelle riforme radicali di cui il paese avrebbe bisogno. L’Italia, in questo periodo storico, necessita di credibilità internazionale e di competenza nei ruoli di rilievo, ma non le si ottiene sostituendo ai ministri Salvini, Santanché e Lollobrigida i ministri Conte, Landini e Bonelli.


Ammesso che questo campo raccogliticcio riuscisse a vincere le elezioni, che accadrebbe al primo Consiglio dei ministri? Che succederebbe in Parlamento alla prima votazione sull’invio dei sacrosanti (si fa per dire, visto che per metà della coalizione non lo sarebbero) aiuti militari all’Ucraina? Dirò di più: il campo largo è un fallimento già prima di presentarsi alle elezioni; in questi giorni ho volantinato per il referendum sulla cittadinanza, mentre accanto a me un ragazzo del Pd distribuiva i volantini a favore dell’abolizione del Jobs Act, provvedimento voluto dallo stesso Matteo Renzi, e ora ripudiato da gran parte della coalizione.


La soluzione appare una sola: leader dei partiti di centro, unitevi! Superate le vostre differenze, fate un passo indietro e ricostruite quel progetto meraviglioso che era il Terzo Polo, che aveva dato speranza a tanti elettori profondamente delusi da questo bipopulismo, e che da Conte vogliono stare lontani tanto quanto da Salvini.

Andrea

studente universitario e militante di Italia Viva



Il campo largo non è un’opzione concreta. Solo due le alleanze plausibili

Posta la complessità nel determinare chi ebbe maggiore responsabilità sul naufragio dell’ormai fu Terzo polo, e posto che, a parità di intendimenti politici, trionfò il personalismo, sorprende come uno dei due protagonisti della vicenda, quello, per così dire, più versatile – dove versatile sta per trasformista cronico – si faccia sostenitore di un simile mappazzone politico.


Pecca, anzitutto, di credibilità, Matteo Renzi, che, non adatto a sostenere un’alleanza a due con Azione e da sempre scettico verso il campo largo, ad oggi si direbbe disposto a federarsi, tra gli altri, assieme al suo caro collega Giuseppi, per il bene dell’Italia contro la “mal politica” di Meloni. Ora, dando la giusta importanza all’ennesima giravolta renziana – prima Terzo polo, poi svolta a sinistra con tanto di foto con Schlein alla partita del cuore e in ultimo il campo largo, larghissimo – occorre entrare nel merito della questione per capirne l’impossibilità de facto. Essa consta di più punti. Il primo, il più dirimente, è il tema della coerenza politica. Sussistono, a oggi, temi di una tale portata globale ed esistenziale rispetto ai quali è inammissibile anche solo poter pensare di avere posizioni così incompatibili. Temi come il conflitto russo-ucraino, Israele e Gaza, il riarmo europeo, il debito comune impongono saldezza, coerenza, lungimiranza politica. L’attuale opposizione non friziona per via di sfumature superabili, ma si spacca in infinite parti date dalle visioni diametralmente opposte.


Il secondo punto è il tema dell’antifascismo. A una opposizione seria, da qualunque formazione essa sia composta, si chiede di occuparsi delle questioni reali. Il vero politico onesto è il politico capace, diceva Croce, non il politico che giorno e notte grida all’allarme squadracce o di deriva orbaniana della democrazia. Si tratta, quest’ultimo, di un vizio comune alle forze d’opposizione tutte, con la felice eccezione di Calenda e dello stesso Renzi.


Vengo agli ultimi due punti: da un lato non si può non evidenziare il rischio di una leadership debole come quella di Schlein che accederebbe a questo ruolo per i voti del Pd, ma che certo non spicca per carisma; il leader dei M5s potrebbe supplire al carisma, ma con meno della metà dei voti del Pd non si capisce come possa aspirare a quella posizione; dall’altro, l’impossibilità de facto di far coabitare nella stessa coalizione Conte e Calenda.


Per concludere, constatato che, a mio avviso, il campo largo appare più come un divertissement di alcuni giornaloni di centrosinistra che come un’opzione concreta, le uniche alleanze plausibili sono l’asse Avs-M5s e Iv-Azione col Pd che, tra le sue molteplici correnti, dovrebbe scegliere, facendo prevalere l’anima più di “sinistra” o quella più riformista, quale tragitto politico imboccare.

Fabio Sinisi

corso magistrale di Scienze storiche, Università la Sapienza

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