Ideologia e pregiudizio. Un sentimento facile pensando a Trump, ma che s’è esercitato anche con il nuovo Papa yankee
Tra i tanti spunti di riflessione generati dall’elezione di Papa Leone XIV ce n’è uno che mi sta molto a cuore, ed è relativo a quella patologia grave ed estremamente diffusa che va sotto il nome di antiamericanismo. Abbiamo ormai appreso tutti che il successore di Pietro è originario di Chicago e ha ascendenze francesi, italiane, spagnole e haitiane, grazie alle quali ha anche sangue creolo: quello che risulta più difficile accettare è che sia americano proprio in virtù di questa mescolanza di radici. Una frase ricorrente è che si tratta del meno americano tra gli americani o che in fondo non lo è: per molti è difficile attribuire i sentimenti suscitati in questi giorni da uno yankee, tanto più se si tratta di emozione, entusiasmo, commozione e simpatia. La nomina di Robert Francis Prevost, che in molti chiamavano Bob prima che diventasse Pontefice, ha smentito sia le previsioni di coloro che con provincialismo e spirito conservatore avrebbero preferito un Papa italiano, che quelle di coloro che, ignorando quale sia l’essenza della missione della Chiesa, davano per certa una scelta geopolitica. Da credente non mi permetto di interpretare perché lo spirito Santo abbia ispirato i cardinali a eleggere un Papa americano, ma credo che sia sotto gli occhi di tutti la secolarizzazione del paese e del mondo occidentale: una gravissima crisi religiosa che ha svuotato le chiese e i seminari, che invita a riflettere sul rapporto tra il benessere diffuso in questa parte del mondo e la vitalità della fede dei paesi più poveri. La rivoluzione attuata con questa elezione ha generato sconcerto in chi non avrebbe mai voluto sul Soglio di Pietro un uomo proveniente dal paese più potente della terra, ignorando che per un autentico credente il potere mondano equivale a nulla, e che quello stesso paese sta vivendo una bancarotta spirituale.
Il sentimento di sconcerto per un’elezione che ha sconvolto ogni previsione è stato subito superato da reazioni ferme allo spirito della Guerra fredda. Agli occhi dei portatori di quest’altra patologia, che passa sotto il nome di ideologia, il Vicario di Cristo non sarebbe altro che il rappresentante del paese più potente e arrogante del mondo e all’origine di ogni male: il liberismo selvaggio, le guerre per procura e la colonizzazione culturale che ha condannato l’intero pianeta all’ignoranza, all’ingiustizia e alla barbarie. Il fatto che Bob sia un missionario, progressista, poliglotta, umile e persino timido, ha mandato in tilt uno schema perfetto che identificava in Donald Trump il simbolo di che cosa sarebbe l’America: brutale, volgare, violenta e senza storia. Come se non bastasse, il Papa yankee è preceduto dalla fama di essere un uomo dotato di bontà, virtù quanto mai scandalosa di questi tempi, e certamente lontana da ogni elemento caratteriale che si possa attribuire a Trump, come lui stesso ha voluto ribadire nella foto ufficiale della Casa Bianca.
l giudizio di supponenza nei confronti dell’America nasce dall’ignoranza di chi ha dimenticato la storia e dalla frustrazione di chi ha perso la propria centralità
Questo inaspettato cambiamento di paradigma ovviamente non mi fa dimenticare che il paese da cui proviene il successore di Pietro si è macchiato di numerose mostruosità, a cominciare dal genocidio dei nativi americani fino alla schiavitù, per non parlare del Viet-Nam e del coinvolgimento in sanguinosi colpi di stato: vergogne che non potranno mai essere giustificate, ma vanno lette nell’evoluzione della storia di un grande impero, che in quanto tale si caratterizza anche per una lunga serie di orrori. E’ successo così dall’inizio della storia, e non ne è esente neanche l’impero romano, che ha affermato la grandezza della propria civiltà insieme a mostruosità di ogni tipo: basta rileggere le gesta di un uomo di genio come Giulio Cesare per ricordare che dopo quel capolavoro di strategia militare che fu la battaglia di Alesia, fece amputare il pollice ai 60.000 galli sopravvissuti, in modo che non potessero più impugnare la spada, poi trascinò Vercingetorige in una gabbia a Roma e, dopo averlo fatto assistere al suo trionfo, lo fece strangolare. Orrori e infamie sono stati all’ordine del giorno nell’edificazione di ogni impero: Enrico VIII fece bollire vivo il suo cuoco Richard Roose, con la falsa accusa di aver tentato di avvelenare il vescovo di Rochester John Fisher: voleva tenersi buono quest’ultimo in modo che desse la sua benedizione al matrimonio con Anna Bolena, ma quando invece si oppose, lo fece giustiziare insieme a Thomas More, anche lui colpevole di non accontentare la sua volontà. Non mi sto riferendo solo agli abomini commessi da leader sui quali è calata una giusta damnatio memoriae quali Hitler, Stalin o Leopoldo II del civilissimo Belgio, responsabile di 10 milioni di morti, oltre alle mutilazioni di chi non gli consegnava il giusto quantitativo di caucciù, ma anche a personalità sulle quali la storia è indulgente, se non addirittura osannante: penso ai massacri compiuti da Napoleone e Pietro il Grande, o a Basilio II, l’imperatore bizantino apprezzato per le sue riforme, il quale, al termine della battaglia di Kleidon, vinta contro il re bulgaro Samuele, ordinò ai propri soldati di accecare quattordicimila soldati nemici, lasciandone uno ogni cento con un occhio solo, in modo che riconducessero in patria i compagni. Potrei andare avanti a lungo nell’elenco di queste vergogne inestricabili dalle fondamenta della civiltà europea, e credo che il giudizio di supponenza nei confronti dell’America, definita da Sigmund Freud “un aborto della civiltà”, nasca dall’ignoranza di chi ha dimenticato la storia e dalla frustrazione di chi ha perso la propria centralità.
Vivo da più di trent’anni in questo paese imperiale e mi sono imbattuto costantemente in persone che corrispondono allo stereotipo dell’americano ignorante, prepotente e rozzo, ma estendere tale giudizio all’intera popolazione è una semplificazione inaccettabile e ridicola, non troppo diversa da quella per cui tutti i siciliani sarebbero mafiosi e i politici inevitabilmente ladri. Sono il primo a inorridire quando mi imbatto in episodi di ipocrisia puritana, della degenerazione della competitività in spietatezza e del rispetto delle regole in ottusità. E ho visto troppi danni sociali, culturali e artistici nati con nobili intenzioni, a cominciare dalla correttezza politica, che proprio qui in America ha avuto il suo catastrofico epicentro. Non appartengo alla schiera di John Fitzgerald Kennedy, ma condivido quando sosteneva che “quanto c’è di brutto in questo paese può essere sconfitto da quello che c’è di bello”, e provo sincera riconoscenza per gli americani che si sono sacrificati per questioni ideali, a cominciare dalla guerra civile, grazie alla quale è stato messo fine all’abominio della schiavitù.
Mi sforzo di capire se i sentimenti di antiamericanismo riaffiorati con l’elezione di Leone XIV siano semplicemente quello che i romani definivano odium imperii, e se questa scelta porti con sé, insieme agli elementi religiosi, un modo per fermare il declino del paese, un connotato politico di opposizione all’attuale amministrazione o invece rappresenti l’ennesimo sigillo di uno strapotere che per molti è insopportabile: è bene sottolineare quanto sia diverso l’antiamericanismo delle popolazioni diseredate rispetto a quello di chi in passato ha goduto di una situazione di potere e dominio. Pochi elementi come il giudizio su New York sono rivelatori del misto di supponenza e ignoranza che alligna in questo tipo di antiamericanismo: la metropoli viene messa in parallelo con quella che viene definita con disprezzo l’America profonda ed elogiata per la sua energia, la potenza, la centralità culturale e la mescolanza di tradizioni diverse. Sembrerebbe un elogio ma in realtà si tratta di una concessione paternalistica: apprezzata in quanto ritenuta simile all’Europa, New York viene considerata diversa o addirittura antitetica rispetto al resto degli Stati Uniti, mentre ha una sua specificità prettamente americana ed è la più compiuta realizzazione della promessa del paese.
Hannah Arendt, che fu costretta a emigrare nel Nuovo mondo per sfuggire alle persecuzioni razziali, ha scritto che “l’antiamericanismo è l’elemento costitutivo dell’identità europea”
Ho sempre pensato che la boutade di Georges Clemenceau – “l’unica nazione della storia passata direttamente dalla barbarie alla decadenza, senza la fase intermedia di civiltà” – sia in realtà un auspicio, ed è superfluo ricordare l’importanza storica della rivoluzione americana, anche e soprattutto per l’Europa, o statisti come i due Roosevelt, Lincoln e Jefferson. Così come le glorie della cultura e dell’arte statunitense attraverso opere che hanno riflettuto ripetutamente, e con la massima severità, sui momenti più controversi della propria storia: basta rivedere i capolavori cinematografici sul Viet-Nam o anche I cancelli del cielo di Michael Cimino, dove un gruppo di americani laureati a Harvard massacra i nuovi immigrati per appropriarsi delle loro terre. Non credo sia una forzatura pensare che la definizione sprezzante di “vecchia Europa” di Donald Rumsfeld discenda dall’atteggiamento di quei laureati, ed è bene ricordare che il massacro raccontato nel film è realmente avvenuto. Guai a non guardare con occhio critico questo paese, come qualunque paese, ma un conto è rimanere incrostati nell’atteggiamento settario che in passato si concretizzava nel termine Amerika, altro è interrogarsi su una realtà contraddittoria, nella quale la luce si alterna all’ombra, ma che predilige sempre l’ottimismo della volontà al pessimismo della ragione.
Ritengo che non sia soltanto la gioventù che consenta allo spirito americano di far prevalere la prima parte dell’affermazione gramsciana, e mi chiedo che cosa pensi il Pontefice statunitense dell’affermazione di Henry Miller: “L’America non esiste: è un nome che si dà a un’idea astratta”. La sera in cui è stato eletto, uno degli elementi che ha maggiormente colpito è stata la sua evidente commozione, ricomparsa nel momento in cui ha ricevuto l’anello del pescatore e poi nell’abbraccio al fratello: un atteggiamento che rappresenta l’opposto dell’arroganza con cui viene identificato l’amerikano.
Gli Stati Uniti hanno goduto il momento di massimo fascino dalla Seconda guerra mondiale sino agli anni Sessanta, mentre il momento più basso è stato raggiunto con le guerre in Viet-Nam, in Iraq, e oggi con Donald Trump. E’ interessante notare che due periodi di antiamericanismo coincidono con le presidenze dei Roosevelt: Theodore è stato l’uomo che ha trasformato il paese in una potenza imperiale, mentre Franklin lo ha risollevato con il New Deal dalla Grande depressione, indicando una strada democratica alternativa al comunismo che si stava espandendo nel mondo. Il crollo di quell’ideologia ha coinciso con un altro periodo virulento al quale ha risposto il francese Jean Baudrillard, parlando della “stupidità dell’antiamericanismo commerciale e culturale: come se l’americanismo non attraversasse ogni società, ogni nazione e ogni individuo, come la stessa modernità”. Personalmente ritengo che l’odio per l’America sia un fenomeno di conservazione, e mi chiedo se si tratti di una provocazione quanto afferma Andrei Markovits in Uncouth nation: why Europe dislikes America: l’antiamericanismo finisce inevitabilmente per fondersi con l’antisemitismo. Hannah Arendt, che fu costretta a emigrare nel Nuovo mondo per sfuggire alle persecuzioni razziali messe in atto nella coltissima Europa, è arrivata a scrivere che “l’antiamericanismo è l’elemento costitutivo dell’identità europea” e mi chiedo se la sua conclusione riveli qualcosa di molto più profondo dell’odium imperii: una patologia che costringe un mondo che non ha più forza propulsiva a costruire la propria identità intorno a un nemico del quale vede solo gli elementi negativi, per negare a sé stesso di essere in crisi. E parallelamente mi domando se la scelta americana della Chiesa, che per quelle stesse persone rimane un esempio di retriva conservazione, rappresenti invece il più formidabile esempio di rivoluzione avvenuta in questo periodo buio.