L’ultima volta di Ranieri, l’uomo della provvidenza

Dopo 34 anni, 501 partite e tante imprese, lascia la panchina e la sua Roma adesso ha finito i “salvatori”

Eadesso? Sotto quale ombrello si ripareranno i tifosi romanisti? Chi proteggerà i loro sogni veri – per citare il maestro Venditti – dalla vita quotidiana? Santi protettori, non ce ne sono più. Terminati (a meno che non si voglia osare l’inosabile, cioè comporre il numero di Francesco Totti). José Mourinho, Daniele De Rossi, Claudio Ranieri: storie, profili, stili diversi, anche molto diversi. Ma un comune denominatore: professori di romanismo. Il primo – lontano per origini geografiche, prossimo per affinità elettive –, lo è diventato in fretta per opportunismo. Geniale chi, nel momento del sofferto commiato, ebbe a dire con lucidità: “José non ha allenato la Roma, ma i romanisti”. Gli altri due – l’uno con l’energia impetuosa che hanno i cavalloni quando inghiottono la spiaggia (e infatti gli stabilimenti della sua Ostia si sono tutti rimpiccioliti); l’altro con lo sguardo disincantato e la forza tranquilla di chi è cresciuto a quinto quarto e aneddoti testaccini (in realtà nato e cresciuto nella vicina San Saba) –, lo sono per nascita e professione di fede. Fatta, mostrata, praticata. Per anni, lustri, decenni. Qui e altrove. Da giocatori (più Daniele di Claudio) e allenatori (più Claudio di Daniele). Andati e tornati. Incapaci di dire no. Perché? Molto semplice. “Se la Roma chiama, devo rispondere sì”, disse Ranieri qualche mese fa, quando i Friedkin lo convocarono per rialzare una squadra che pareva andata definitivamente al tappeto, messa ko dai colpi micidiali del duo Souloukou-Juric, il fuoco amico che avrebbe accompagnato la Magica in Serie B, sicuro, se non fosse intervenuto l’uomo della provvidenza, che è epiteto assai più nobile dell’aggiustatore, qualifica con cui il nostro è stato contrattualizzato più volte, soprattutto nella parte finale della sua lunghissima carriera di allenatore – trentaquattro anni sono passati dall’esordio in A, ci pensate?

E a proposito di soprannomi (una specialità romana), quelli che lo hanno accompagnato, in certi casi etichettato, da queste parti, non gli hanno mai reso particolare giustizia: dal “principe pecione” di quando tirava i primi calci all’oratorio, al “fettina” con cui crudelmente gli ricordavamo le origini famigliari (alternativa ancor più spietata, “macellaretto”), fino al terribile “sor Claudio” di questi ultimi mesi, una specie di baronetto ‘de noantri. Ma i soprannomi solitamente ci prendono, e nel caso di Ranieri raccontano di una traiettoria – di uomo, calciatore e allenatore – ispirata dal tentativo (riuscitissimo) di emanciparsi dalle origini popolari (del resto da anni vive in un elegante appartamento in viale Bruno Buozzi, borghesissimi Parioli), senza mai abbandonarne i valori – innanzitutto l’onestà e il rispetto –, che anzi lo hanno guidato, ovunque si trovasse – in provincia o in una metropoli – e qualunque fosse l’obiettivo – promozione, salvezza, piazzamento europeo, scudetto – della squadra che gli era stata affidata, spesso con la necessità impellente di aggiustarla, giustappunto.

A questo giro – tre volte ci è ricascato, 2009 con la Sensi, 2019 con Pallotta e 2024 con i Friedkin, sempre per amore –, sembrava un’impresa troppo ardua perfino per le sue abilità da artigiano di qualità. Era una squadra sgangherata, la Roma. Finita in una di quelle stagioni maledette in cui si abbandona rapidamente all’autolesionismo, dando ragione alla definizione che per lei scelse Paolo Conti, portiere nella seconda metà dei Settanta, anni di passioni e frustrazioni: “Fenomeno di autocombustione”. Perfino il suo pubblico, che con Mou si era ricordato di quell’altra imperdibile massima di capitan Di Bartolomei – “Ci sono i tifosi di calcio, poi ci sono i romanisti” –, aveva dato preoccupanti segnali di disaffezione, portato allo sfinimento nel giro di pochi mesi dai licenziamenti, prima di Mourinho poi di De Rossi, e dopo dall’esperienza mortificante con Juric, che nessun romanista meritava di vivere.

Con il cuore in panne, il romanista si è affidato, ancora una volta, a Claudio Ranieri, capace di aggiustargli pure i sentimenti. “Uno di noi”, gli urlavano l’altra sera mentre faceva il giro di campo, con i nipoti come scudieri e una sciarpa al collo che recitava lo slogan che ogni tifoso vorrebbe fosse, ancora, un impegno programmatico: “Fino alla morte”. No, stavolta no. Una quarta, no. Basta. Anche se il ruolo di senior advisor genera, al momento, più dubbi che certezze, non se ne parla di proseguire. “One more, the last one”, gli avrebbe assicurato Ryan Friedkin l’altro giorno, in un estremo tentativo di tenerlo incatenato alla panchina. Ma a quasi 74 anni, li compirà il 20 ottobre – come Rimbaud, Borzov, ma anche Kamala Harris e Mara Venier –, ha deciso di passare a incarico, non sappiamo se migliore, certamente più sereno. Da settembre, probabilmente, a metà pomeriggio di tanto in tanto lo rivedremo in vicolo della Palombella, a un passo dal Pantheon, davanti al portone della Gianturco, la Primaria che frequenta la piccola Dorotea, la nipote che domenica sera è riuscita a sciogliere la commozione di nonno Claudio di fronte alla lupa capitolina che aveva ricevuto in dono dalla squadra, con un geniale ed esilarante “abbiamo un altro animale domestico ora”.

“Da Testaccio alla Roma, ho realizzato il mio sogno di bambino”, la sintesi di una vita. Dentro, ci sono state tante cose. Belle, indimenticabili, ma anche faticose. C’è stato un prima e un dopo Leicester, una delle imprese più grandi nella storia del calcio (mondiale, non solo inglese). Si è preso più soddisfazioni all’estero. In Italia, avrebbe meritato di alzare un trofeo importante, più della coppa Italia e della Supercoppa vinte con la Fiorentina trent’anni fa. Ma probabilmente, le due esperienze a Cagliari, all’inizio e alla fine della carriera (dalla C alla A dal 1988 al 1990; promozione dalla B e salvezza dal 2022 al 2024), gli hanno dato molto più di un titolo. Domani si siederà in panchina per l’ultima volta, la numero 501 in Serie A, a quasi trentacinque anni dalla prima. Era il 9 settembre 1990, l’Inter passeggiò a Cagliari con una tripletta di Klinsmann, realizzata in 17 minuti. Sembrava una stagione segnata, e invece alla fine quella squadra si salvò. Lo definirono il Cagliari degli indomabili. Per tutti, non per lui, più padre che domatore. Come ha detto un tifoso romanista, “grazie perché come un padre ai suoi figli, non ci hai chiesto di essere perfetti”. Sei stato grande, Claudio.

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