Per una maggiore flessibilità nella selezione dei prof si creano nuove commissioni valutanti, ma serviranno solo ad aumentare il carico di lavoro burocratico sotto il quale le università italiane si stanno schiantando. La soluzione sarebbe la cooptazione, ma fa ancora paura
Due cose in Italia non passeranno mai di moda: fare ammuina e riformare i concorsi universitari. Il massimo della gioia lo tocchiamo quando è permesso fare ammuina con la riforma dei concorsi universitari.
Dieci anni fa, la ministra Gelmini lanciò un sistema dal nome impegnativo: Asn, abilitazione scientifica nazionale. In pratica: per diventare prof, prima di partecipare a un concorso in una qualsiasi università dello Stivale, bisognava farsi accreditare da una commissione centralizzata. Perché in Italia i grandi drammi accademici si consumano sempre attorno a due fuochi: quello che succede nelle sedi locali e quello che succede a Roma. Di volta in volta, il “locale” o il “nazionale” vengono caricati di tutti i vizi o di tutte le virtù del reclutamento. Aggiungere all’esame locale l’abilitazione nazionale era un modo per salvare capra e cavoli. Una doppia garanzia, per professori e studenti. Di repente ci si è accorti che quell’accreditamento in più era perfettamente inutile.
Tra i motivi dell’abolizione: “maggiore flessibilità nei processi di selezione e valorizzazione dei talenti”. Che, ovviamente, non significa nulla. Non da ieri ma da mo’, i documenti che girano attorno all’organizzazione dell’università sono piccoli saggi di burocratese demenziale. Anyway, l’abilitazione sarà sostituita da un vaglio periodico, vita natural durante, delle pubblicazioni del neoassunto. Marchingegno di cui nessuno sentiva la necessità, visto che già esiste la Vqr (in materia di acronimi impronunciabili, l’università italiana rivaleggia con le Br), una valutazione quadriennale degli articoli e dei libri in base alla quale il ministero stabilisce quanti fondi assegnare all’ateneo.
Le nuove, pletoriche, commissioni valutanti serviranno solo ad aumentare il carico di lavoro burocratico sotto il quale le università italiane si stanno schiantando. Per capire la logica di tanto e gratuito sadomasochismo, bisognerebbe scrivere un trattato di antropologia psicoanalitica. Ma per tornare alla questione dei concorsi, bastano due parole: la soluzione non è nazionalizzare, localizzare o puffare le commissioni ma abolirle, assieme alle loro griglie infernali, i punteggi campati in aria, i criteri bizantini che – ve lo dico per esperienza – neppure chi ne fa parte capisce fino in fondo. Ci vuole la cooptazione: il dipartimento bandisce un posto e decide chi assumere.
Nessun punteggio, nessuna griglia, nessuna “oggettività” fasulla: solo la responsabilità di scegliere il collega migliore. E se sbagli, ne rispondi. In America funziona così. Da noi no. Perché la cooptazione richiede coraggio. E la classe accademica italiana non è fatta tutta da cuori di leone. Meglio le commissioni, che sono l’alibi perfetto, le brache eternamente calate durante il rito dell’irresponsabilità generale. Come nei crimini collettivi: tutti colpevoli, nessun colpevole. Possono succedere le peggio cose, i commissari dormiranno sonni tranquilli. Aspettiamo, con impazienza, la prossima riforma-valium.