Se l’occupazione e il controllo della Striscia sono l’obiettivo e il contesto della nuova iniziativa miliare denominata “Carri di Gedeone”, allora serve un’assunzione di responsabilità del governo israeliano. Un esercizio di saggezza per un territorio senza Hamas e contro Hamas
Netanyahu ha replicato all’oppositore Yair Golan, che aveva definito i comportamenti sul campo di Israele a Gaza come espressione di una condizione di insania rivoltante: l’esercito israeliano è “il più morale al mondo”, il che è vero, per quanto si possa giudicare con il criterio della moralità un esercito combattente. La logica tragica della guerra a Gaza, con il corollario della repressione del terrorismo in Cisgiordania, è difendibile senza incertezze sul piano etico. Un paese e un popolo che vogliano sopravvivere, dopo il pogrom del 7 ottobre, non si lasciano ricattare e sfidare da un esercito terrorista che si è annesso un territorio e i suoi abitanti, si fa scudo di ostaggi catturati oltre il confine e dei propri civili, donne vecchi e bambini, nascondendosi sottoterra e al riparo di ospedali, scuole e moschee e centri umanitari. Le conseguenze sono disperatamente evidenti, ma è moralmente ipocrita, quando non sia inquinato da pulsioni ideologiche e da antisemitismo travestito da antisionismo, affermare che ci fossero alternative a una guerra dispiegata per eliminare Hamas.
Ora però Hamas ha ricevuto colpi decisivi, e i leader di guerra di Israele possono rivendicare di aver rotto l’assedio militare anche sugli altri fronti, dal Libano degli Hezbollah all’Iran, alla Siria. Il paese, sia chiaro, resta vulnerabile e titolare del pieno diritto all’autodifesa. I missili houthi colpiscono il suo principale aeroporto, l’Iran con una mano tratta con il disinvolto Trump e con l’altra è ancora l’origine delle aggressioni dei suoi intermediari del terrore e intanto proclama il suo diritto all’arricchimento dell’uranio, difendendo lo status di potenza prenucleare che ha tra i suoi fini l’annientamento di Israele. La Cisgiordania è percorsa dalla febbre nichilista che considera “atto eroico” l’uccisione a freddo di una donna israeliana incinta, secondo i comunicati dei terroristi lì insediati. La Siria oscilla tra una stabilizzazione forzata siglata dalla classe dirigente di al Qaida e dell’Isis, che ha cacciato Assad, e la prospettiva di una nuova guerra civile affacciata sull’ignoto. Detto questo, è evidente, e riconosciuto o rivendicato da Netanyahu nella conferenza stampa di mercoledì scorso, che la guerra di Gaza sta cambiando segno. L’occupazione e il controllo della Striscia sono l’obiettivo e il contesto della nuova iniziativa miliare denominata “Carri di Gedeone”. L’obiettivo è non solo la pressione per il rilascio delle ultime decine di ostaggi vivi e morti imprigionati nei tunnel e l’eliminazione delle ultime sacche di resistenza terroristica, ma appunto occupazione e controllo pieno del territorio.
Qui nascono due seri problemi. Se occupi un territorio e lo controlli, il tuo primo obiettivo non può che essere sfamare la popolazione civile e procurarle acqua da bere. Su questo piano l’assedio posto a Israele dal partito umanitario, con la partecipazione dell’Onu e di un impressionante numero di governi democratici alleati di Israele, rischia di condannare il paese che si difende, e ora lo fa attraverso occupazione e controllo del campo nemico, a un isolamento significativo e molto pericoloso. La fanfaluca secondo cui Israele è stata tratta in una guerra sanguinosa e tragica per soddisfare esigenze di primato politicante o parlamentare di un leader e della coalizione che ha vinto le elezioni e governa è indegna di alcuna considerazione.
Così come sono repellenti le accuse di complicità in uno sterminio o genocidio rivolte a chi ha condotto o sostenuto in pieno le ragioni della guerra contro Hamas a Gaza. Ma la responsabilità cui è chiamato il governo Netanyahu nel passaggio di fase da una guerra di difesa e controffensiva contro il terrore antisemita alla occupazione militare di un territorio in cui abitano oltre due milioni di abitanti è diversa. E su questo non si vede una presa d’atto e di coscienza del governo israeliano. Il secondo problema è la prospettiva politica, lo sbocco. I due stati e due popoli sono un flatus vocis, una tiritera diplomatica sempre meno significativa. Il piano Trump di pulizia etnico-turistica della Striscia ha però lo stesso statuto delle vecchie fole dissolte dalla storia diplomatica e militare del medio oriente, è semplicemente qualcosa che non si può fare se non al prezzo di creare il mito o narrazione sacra di una nuova Nakba e rinviare di non si sa quanti decenni il miraggio di una stabilizzazione anche solo provvisoria. Una soluzione transitoria e credibile di tipo politico per il governo della Striscia senza Hamas e contro Hamas dovrebbe essere appunto un esercizio di responsabilità politica e di saggezza di Israele e del suo governo nel momento in cui si perseguono occupazione e controllo del territorio conquistato. Non è un problema morale, è il problema politico di Netanyahu e di Israele.