La percezione di chi non si sente benestante né popolare è quella di essere schiacciato tra un welfare debole e una scarsa mobilità sociale. Parlano il prof. dell’università Cattolica Rosina e l’economista Zamagni
Un tempo era il motore della società, della crescita economica e il simbolo della stabilità. Oggi il ceto medio italiano arranca, impoverito e sempre più escluso dalle dinamiche di sviluppo del paese. Questo è un disagio che spesso è difficile da afferrare ma che i numeri raccontano con chiarezza. Nel rapporto Censis-Cida – presentato ieri durante un convegno alla Camera dei Deputati – il ceto medio si presenta come una classe sociale trasversale, istruita, ma indebolita da scarsi riconoscimenti economici e da un welfare scarso. A identificarsi in questo gruppo sociale è il 66,1 per cento degli italiani, contro il 28,2 per cento che si colloca nel ceto popolare e il 5,7 per cento nel ceto benestante.
“Il ceto medio è un concetto nato dagli anni Cinquanta, nel dopoguerra, in un’Italia in forte crescita economica. In quel periodo si allarga il sistema di welfare e si assiste a una significativa mobilità sociale. Soprattutto negli anni Ottanta il ceto medio vive una stagione di benessere e accumula risparmio”, dice al Foglio Alessandro Rosina, demografo e professore all’università Cattolica di Milano. Tuttavia, questa traiettoria positiva si è incrinata nel tempo. “Con la crisi economica, l’instabilità lavorativa, la bassa occupazione giovanile e femminile e il crescente costo nell’allevamento dei figli, il ceto medio ha avuto difficoltà a mantenere uno stile di vita di qualità”.
Il cambiamento è stato accompagnato anche dalla globalizzazione e dalla terza rivoluzione industriale, che hanno disegnato una nuova struttura occupazionale. “La struttura del mercato del lavoro prima poteva essere spiegata attraverso l’immagine di una piramide. Oggi la piramide si è trasformata in una clessidra: la parte inferiore delle due figure è simile, fatta da profili professionali che non necessitano di molte competenze, i cosiddetti lavori umili; a cambiare è la parte intermedia, dove si registra una strettoia. Questo vuol dire che il livello intermedio, che definiva il ceto medio, oggi non trova sufficiente domanda sul mercato del lavoro”, dice al Foglio Stefano Zamagni, economista ed ex direttore dell’Agenzia per il terzo settore. Il rapporto Censis-Cida conferma questa percezione: il 76 per cento degli italiani, infatti, ritiene che sia molto più difficile di un tempo salire nella scala sociale, mentre quasi il 49 per cento per cento teme esplicitamente un “declassamento”. L’area di mezzo della società quindi si è ristretta, intrappolata tra l’insicurezza del basso e l’inaccessibilità dell’alto.
Un altro punto cruciale è la difficoltà del mercato del lavoro italiano nel valorizzare i giovani. “Un giovane laureato, se rimane in Italia, fatica a entrare nel mondo del lavoro e a vedere valorizzato il proprio capitale umano. Le aziende italiane usano ancora i giovani come manodopera a basso costo, non come leva per la competitività”, dice il demografo Rosina. Sulla questione concorda Zamagni, che collega il problema al sistema scolastico e universitario: “Il livello di una laurea non basta più. Il nostro sistema scolastico è ancora legato alla società precedente. Quella che vedeva nello studio l’unica prerogativa per poi entrare nel mondo del lavoro. Oggi non è più così. Il giovane che studia all’università acquisisce conoscenze che nel momento in cui entrerà nel mondo del lavoro saranno già superate. Questo perché la cultura media diventa obsoleta in poco tempo a causa dell’accelerazione tecnico-scientifica”, dice l’economista. Il rapporto Censis-Cida segnala infatti che solo il 27,5 per cento degli italiani ritiene che oggi l’istruzione sia un vero strumento di mobilità sociale. È evidente l’urgenza di un’azione sistemica. “Serve un progetto culturale, economico e istituzionale più ampio. Serve una riforma dell’istruzione basata sul lifelong learning, cioè l’apprendimento che dura per tutto il ciclo di vita”.
Non sorprende, quindi, che la fascia d’età tra i 25 e i 34 anni con titolo universitario sia la più rappresentata tra coloro che lasciano il paese. “I nostri laureati vanno via – dice Zamagni – ed è assurda la gravità di questa cosa. Lo stato italiano paga tantissimi soldi per formare capitale umano che poi finisce per portare benefici ad altri paesi”. Il problema – che emerge anche dai dati Censis – è la mancanza di riconoscimento del valore del capitale umano da parte delle aziende italiane. “Un giovane laureato se rimane in Italia fa più fatica a entrare nel mondo del lavoro e fa più fatica a vedere realizzato il proprio capitale umano con reddito adeguato e una carriera. Le aziende italiane usano i giovani come manodopera a basso costo e non come leva per incrementare la competitività e la produttività. È questo il problema”, dice il professor Rosina.
Il rapporto Censis-Cida evidenzia poi come il welfare sia percepito debole, soprattutto nelle famiglie monoreddito e con figli a carico. “Mancano le politiche attive del lavoro, i servizi per l’infanzia, le politiche abitative. Le famiglie si trovano nell’impossibilità di risparmiare e la mobilità sociale dei figli è praticamente bloccata. Oggi l’unica vera opportunità di miglioramento non è la mobilità sociale ma la mobilità geografica, ovvero spostarsi all’estero”, dice Rosina.