Capaci, 33 anni. Ma i veleni dei professionisti dell’antimafia sono ancora qui

Dubbi, accuse e nuove ombre (mediatiche): è l’eterna zona grigia. Dal sensazionalismo giornalistico agli attacchi incrociati tra ex Ros e magistrati simbolo, la ricostruzione dei fatti si complica. Ancora fango e sospetti

La strage di Capaci, trentatré anni fa. Dal 2002 il 23 maggio è la Giornata della legalità, si sono svolte commemorazioni appropriate e si sono ascoltate parole di sobria fermezza contro la mafia, tra tutte il breve messaggio del Presidente Sergio Mattarella. Si è ascoltata come sempre anche qualche dichiarazione più bolsa o insincera, da parte di qualche esponente politico. Soprattutto, nel clima sempre rinnovato alla scadenza dei “veleni” e delle “verità nascoste” sui mandanti e i depistaggi, e con nuovi capitoli che si aggiungono al racconto infinito – come le “agende mai viste” di Falcone sulla presunta “pista nera” del delitto di Piersanti Mattarella, smentita però nei processi – ecco arrivare i consueti fumi, o svarioni giornalistici, di professionisti dell’antimafia veri e presunti.

Ad esempio: “Sulla strage di Capaci non sapete ancora tutto”, è l’incipit tonitruante di un articolo da delirio di Lirio Abbate su Repubblica. In cui si ipotizzano, ma sono semplici sentori da sommellier di veleni siciliani, nuovi misteri. Stavolta grazie al montaggio alternato e ipotetico tra frasi dall’ultimo interrogatorio di Messina Denaro (“cose fortissime, sibilline, taglienti”) e vecchie intercettazioni di Totò Riina. Il boss MMD “parla di ‘input’, di ‘grandi cambiamenti’, di ‘verità parziali’”. E’ morente, avesse rivelazioni da fare potrebbe. Invece “non collabora, non si pente. Ma semina. Come chi lancia un fiammifero in un bosco secco”. Insomma niente di concreto, ma nel delirio narrativo si nasconde evidentemente la vera verità: “Un tentativo di depistaggio? Un messaggio in codice ai complici?”. Chissà. Messina Denaro non dice niente, ma “lo fa da boss, da uomo che conosce i segreti, ma soprattutto sa usarli”. Montaggio alternato, Totò Riina intercettato a Opera: “L’ultima parola non si saprà mai”, disse. Dunque nulla, ma per Abate è “come ribadire che ci sono cose che non verranno mai raccontate. Che non devono essere dette. Ma che possono servire per mediare o ricattare”. Conclusione che manco una serie di Netflix: “Come Messina Denaro. Due boss, due epoche. Ma una sola regia. Un solo codice. Un unico patto del silenzio”. “Come una sfida. O una minaccia”.



Più sorprendente, e più grave perché non si tratta di un pezzo di fanta-antimafia come quello di Repubblica, un articolo ieri sul Corriere di Giovanni Bianconi, che è invece ottimo ed esperto giornalista di giudiziaria. Siamo sempre dalle parti del “palazzo dei veleni” di Palermo: quello “da cui Falcone fu costretto ad andarsene e che Borsellino definì un ‘nido di vipere’”. Ma Bianconi punta sull’oggi. E fa due affermazioni davvero discutibili. Lo scenario sono le recenti e antiche indagini che coinvolgono la procura di Caltanissetta. Temi su cui la Commissione parlamentare Antimafia la scorsa settimana ha ascoltato gli ex carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno, assolti due anni fa nel processo sulla trattativa Stato-mafia.

Scrive sorprendentemente Bianconi che “per rivendicare la correttezza dei loro comportamenti che non hanno smesso di generare dubbi nonostante le sentenze di non colpevolezza”, i due ex carabinieri hanno lanciato accuse e sospetti nei confronti dei magistrati di Palermo al tempo delle stragi e dell’inchiesta su mafia e appalti condotta dagli stessi ex ufficiali del Ros”. Per giunta indicando i nomi di “veri e propri simboli dell’antimafia giudiziaria” (sic!) come il (defunto) procuratore Piero Giammanco, Gioacchino Natoli, Giuseppe Pignatone, e l’oggi senatore Roberto Scarpinato.


La frase di Bianconi o è una castroneria o è un trabocchetto linguistico: Mori e De Donno, assolti in via definitiva per la “trattativa” – “una boiata pazzesca”, scrisse nel 2012 Giovanni Fiandaca, senza nemmeno dover attendere l’esito di un’inchiesta che suonava farlocca da subito – che altro avrebbero da “rivendicare”? E, soprattutto, una piena assoluzione – e una sentenza che ha fatto strame di un’inchiesta inconsistente – in chi non avrebbe “smesso di generare dubbi”? Forse nel mondo dei professionisti dell’antimafia?



Ma il capolavoro logico-distorsivo di Bianconi, che ovviamente vogliamo ritenere involontario o frutto di cattiva sintesi, è un altro. Mentre dunque gli innocenti in processo Moro e De Donno avrebbero ancora da diradare dubbi, a smentire le loro parole basterebbero i fatti “raccontati in tutt’altro modo” da chi è invece sotto accusa: “Natoli e Pignatone, indagati da un anno o più a Caltanissetta per il presunto insabbiamento del rapporto mafia-appalti, hanno già fornito agli inquirenti le prove che secondo loro ribaltano e smentiscono la versione degli ex Ros”. Dunque valgono una sentenza in tribunale? Oppure per i magistrati – in quanto casta o in quanto eroi della stagione antimafia? – tutto è già chiarito con le dichiarazioni fornite, senza necessità di inchieste, eventuali processi (e ovviamente piene assoluzioni)? Per loro non valgono: innocenti sulla parola. Per non dire dell’allora magistrato e ora vociante senatore cinquestelle Scarpinato, che “ha vergato un’articolata e puntigliosa memoria per rintuzzare le ‘falsificazioni e distorsioni’ attribuite a Mori e De Donno”. Anche per lui basta la parola. Sono passati trentarè anni dalla strage di Capaci, ma i meccanismi e lo stile di certo professionismo dell’antimafia ancora avvelena l’aria.

  • Maurizio Crippa
  • “Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini”

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