Le espulsioni illegali di Trump e la fine dell’habeas corpus

Kristi Noem, segretaria alla Sicurezza degli Stati Uniti, pensa che l’habeas corpus sia il contrario di ciò che è. Il Cato Institute, think tank libertario, dimostra che i venezuelani espulsi non erano membri di gang criminali ma padri di famiglia regolari

La scena accaduta ieri al Senato degli Stati Uniti è tanto divertente quanto terrificante per una democrazia. Durante un’audizione sulle politiche dell’Amministrazione Trump contro l’immigrazione attraverso espulsioni di massa, spesso illegali, la senatrice Maggie Hassan ha chiesto alla segretaria alla Sicurezza nazionale Kristi Noem cos’è l’habeas corpus. La domanda sul diritto fondamentale all’inviolabilità personale, uno dei fondamenti dello stato di diritto, poteva apparire banale o provocatoria, ma era giustificata dal fatto che il vice capo di gabinetto della Casa Bianca, Stephen Miller, nei giorni scorsi ha dichiarato che l’Amministrazione sta “valutando attivamente” la possibilità di sospensione l’habeas corpus. Ma più sorprendente è stata la risposta della ministra: “L’habeas corpus – ha detto Noem – è il diritto costituzionale che ha il presidente di poter espellere le persone da questo paese”. L’esatto contrario. “No, non è corretto – ha risposto la senatrice democratica – l’habeas corpus è il diritto fondamentale che divide le società libere, come l’America, dagli stati di polizia come la Corea del nord”.

Dover spiegare a una esponente del governo che l’habeas corpus non è il diritto del presidente degli Stati Uniti di disporre della libertà delle persone ma, al contrario, il diritto delle persone a non essere private arbitrariamente della propria libertà senza una ragione convalidata da un tribunale, avrebbe fatto molto sorridere. Ma in quest’epoca è un po’ inquietante, soprattutto se a rispondere è la segretaria alla Sicurezza nazionale. A essere preoccupati per la violazione dei diritti civili da parte del governo americano non sono soltanto i liberal, come la senatrice democratica del New Hampshire, ma anche pezzi di mondo vicini al Partito repubblicano. Anche perché ormai è chiaro che le espulsioni illegali non sono casi singoli, come quello celebre di Abrego Garcia, ingiustamente spedito in una prigione in El Salvador e goffamente accusato, anche attraverso immagini di tatuaggi ritoccate con photoshop, di essere membro di una gang criminale.

Il Cato Institute, per esempio, ha pubblicato un dossier che dimostra come oltre 50 venezuelani attualmente detenuti in El Salvador fossero entrati legalmente negli Stati Uniti, senza aver mai violato alcuna legge sull’immigrazione. L’aspetto interessante è che il Cato Institute è un think tank libertario, fondato dal miliardario Charles Koch, considerato una sorta di George Soros di destra, un pensatoio indipendente sensibile alle tematiche del libero mercato e delle libertà civili, storicamente vicino all’ala liberal-libertaria del Gop. E per giunta la diaspora venezuelana, frutto dell’esodo di massa dal regime socialista di Nicolás Maduro, è vicina alle posizioni intransigenti del Partito repubblicano rispetto alla dittatura in Venezuela. E invece anche loro, migranti politici, vengono trattati come criminali: arrestati ed espulsi.

Dopo che il governo americano aveva deportato, a metà marzo, nelle prigioni salvadoregne circa 240 venezuelani, la Cbs ne aveva pubblicato i nomi e scoperto che il 75 per cento di loro non aveva precedenti penali né negli Stati Uniti né all’estero. Meno attenzione è stata prestata al fatto che decine di questi uomini non abbiano mai violato le leggi sull’immigrazione. Secondo il governo americano sono tutti “immigrati clandestini”, ma la ricerca effettuata dal Cato Institute mostra che dei 90 casi di cui è noto il metodo di attraversamento del confine, 50 uomini sono entrati legalmente negli Stati Uniti, con un’autorizzazione preventiva del governo. Non si tratta di una cosa inusuale, perché circa la metà dei venezuelani immigrati negli ultimi due anni negli Stati Uniti è entrata con un visto o come rifugiato politico.

Il Cato è riuscito a ricostruire i profili e le vite di buona parte di queste persone ora imprigionate nelle carceri di Nayib Bukele, il presidente salvadoregno alleato di Trump. “Erano operai, muratori, installatori di tubature, cuochi, fattorini, un allenatore di calcio, un truccatore, un meccanico, un veterinario, un musicista e un imprenditore. La maggior parte di coloro che sono stati rilasciati ha trovato rapidamente lavoro negli Stati Uniti. La maggior parte degli uomini sono padri. In totale, cercavano di mantenere 44 figli”. Sono stati espulsi senza prove e senza un giusto processo. Le autorità statunitensi sostengono che siano dei “terroristi” membri del Tren de Aragua, una pericolosa gang criminale venezuelana, e le prove dell’affiliazione sarebbero i tatuaggi. Ma le evidenze mostrano tutt’altro: un ragazzo ha un tatuaggio di carte da gioco che copre una cicatrice a seguito di un incidente quando era bambino, un altro è un truccatore omosessuale che ha tatuate sui polsi due corone con scritto sopra “mamma” e “papà”; un altro ragazzo ha il tatuaggio del simbolo del Real Madrid, la sua squadra di calcio preferita.

“Queste persone sono arrivate con un’autorizzazione del governo statunitense, sono state sottoposte a controlli e screening prima dell’arrivo, non hanno violato alcuna legge sull’immigrazione e il governo statunitense le ha fatte sparire senza un regolare processo, trasferendole in una prigione straniera. E sta pagando il governo salvadoregno per continuare a tenerle in carcere”, scrive il Cato Institute. Formalmente c’è ancora, ma forse negli Stati Uniti di Trump l’habeas corpus è già sospeso.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali

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