L’arte vi farà (un po’) liberi. Storia di un bel murale nel carcere di Opera

Grandi onde che provano a far uscire sogni interiori, mondi nascosti e nuove possibilità. Un grande progetto con un artista e sei detenuti, sostenuto da Brera. Destinato a ripetersi, strutturarsi e stringere migliori rapporti tra il dentro e il fuori. Appunti per il governo

La prima impressione visiva evoca il fluttuare delle onde, le onde del destino forse, che nella vita di ognuno possono prendere le curve più indecifrabili. L’artista visuale Carlo Galli, che ha immaginato questa grande opera murale e l’ha chiamata Superfici dell’Immaginazione, parla però del fluire del tempo. Un tempo che procede per onde, scava solchi, ma non è mai un tempo perduto, ha un senso da ritrovare. Intuizione molto vera, e molto reale, per il luogo in cui siamo, la Casa di Reclusione di Opera, a Milano. Un luogo dove, per le persone che vi sono ristrette, il tempo è l’elemento più estraneo, che scorre a lato, immobile. Un tormento o al massimo la speranza di un conto alla rovescia. Invece queste grandi onde, queste strisce di zebra, provano a far uscire sogni interiori, mondi nascosti e nuove possibilità. E il continuum dell’immagine fluida, quasi psichedelica, ha la capacità di far apparire tridimensionale, vivo, quel grande muro grigio di cemento: il muro interno di un cortile di prigione. O almeno questa sensazione devono averla provata, i sei detenuti che con Carlo Galli e con l’educatrice Silvia Brambilla a quest’opera hanno lavorato. Intensamente, da metà marzo a metà maggio, compreso un corsi di preparazione. Si sono anche divertiti, dicono sorridendo quasi con timidezza: non solo la rottura della routine, ma un’esperienza davvero nuova. Un workshop d’arte, addirittura, dentro a un carcere.

Il grande murale fatto di bianchi, neri e grigi progettato da Galli e realizzato, dopo un bel lavoro preparatorio, con sei detenuti di Opera – tutti “articolo 21”, coloro che possono essere assegnati al lavoro esterno, nel loro caso nelle strutture dell’istituto – non è un gesto estemporaneo, ma il risultato di un progetto ampio e ricco di significato. Lo ha realizzato l’associazione Artàmica APS ed è promosso e sostenuto dalla Pinacoteca di Brera, anzi meglio la Grande Brera, fortemente voluto dal direttore Angelo Crespi nell’ambito di quella missione importante per i grandi musei che è quella dei progetti di inclusione e integrazione, soprattutto rivolti alle componenti sociali più fragili: nei giorni scorsi Brera ha presentato un progetto, finanziato dal museo, dedicato all’inclusione di bambini con disabilità intellettive realizzato con l’associazione i Bambini delle Fate, attiva dal 2005. E le persone ristrette in carcere, appunto. Il progetto partito da qualche mese ha già permesso le visite in Pinacoteca di tre gruppi di detenuti e altre ne seguiranno. Intanto, tra le mura di Opera, con il convinto sostegno della struttura a partire alla direttrice, Stefania D’Agostino, è iniziato questo lavoro insolito, realizzazione d’arte, che ha coinvolto un po’ tutti. Dentro e fuori. Come spiega Alessandro Pellarin presidente di Artàmica, sottolinendo che non è un progetto a sé destinato ad esaurirsi, ma invece a ripetersi, strutturarsi, coinvolgere altri detenuti e stringere migliori rapporti tra il dentro e il fuori. “Il muro, spesso simbolo di separazione, qui si trasforma in una superficie di senso, di bellezza e di riscatto. E’ un invito a guardare oltre, a riconoscere l’umano dove meno ce lo aspettiamo”.

Portare l’arte in luoghi “ristretti” come questo non è una novità assoluta, ma aver realizzato un’opera “dentro” e destinata a rimanere all’interno di quel perimetro per definizione angusto, è un passo significativo. I musei sono le moderne cattedrali dove la gente va “a cercare una qualche “redenzione ai propri mali”, dice Crespi. L’arte non è salvifica, ma ha il potere attraverso la bellezza di migliorare le persone in ogni condizione. E anche di migliorare luoghi come le carceri, che nella nostra società sono state invece concepite per essere brutte, inutilmente afflittive per chi vi è detenuto e per chi svolge il compito di custodia. “Attivare trasformazioni anche nei luoghi più chiusi e fragili”. Non una rivoluzione, certo, ma un piccolo buon passo. Considerando cosa sono i luoghi, e di abbandono, del nostro paese. E un modo per affermare che “qui abbiamo a che fare con persone”, come dice la direttrice di Opera D’Agostino. Il governo, così zeppo di teorici delle chiavi da buttare, prenda appunti.

  • Maurizio Crippa
  • “Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini”

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