Gli abbindolatori che resero grande l’America

La letteratura non li ha dimenticati, da Melville a Fitzgerald. Il catalogo di “con men” nel romanzo è sterminato. Il “trickster” è anche filosofo, ideologo, teologo. Come lo sono le sue vittime. Truffe, imbrogli e seduzioni

Gente che parla, negozia, tratta il prezzo. Cerca di turlupinare il prossimo, o ne viene turlupinato. O almeno si sospetta che così faccia. Un grande sfoggio di parlantina. Disinvoltura disarmante. Avance audaci e precipitosi retromarcia. Il gran mistero del mondo non è che ci sia chi per un buon affare, un deal, venderebbe la madre. Né che ciascuno cerchi di imbrogliare l’altro. E’ che gli imbroglioni ci risultano simpatici. Che abbiamo imparato ad apprezzarli. Ad ammirarli. A fidarci di loro. Persino ad amarli. L’America è da sempre la terra dei magliari. Dei venditori di tutto, specie di speranze e di sogni. “Ces Américains qui aiment tant à être dupés”, a cui piace tanto essere imbrogliati, scriveva Baudelaire. Un’immensa prateria, un tempo vergine, percorsa da venditori di tutto, commessi viaggiatori, lavoratori infaticabili che, appesantiti dalle loro valigie, armati di disarmante parlantina, girano da un capo all’altro del paese, cercano di piazzare le loro mercanzie, materiali o ideologiche che siano. Sono stati loro ad accompagnare, a rendere possibili due secoli pressoché ininterrotti di strepitosa crescita, a farne la massima potenza industriale sulla faccia della terra. Prima ancora delle ferrovie transcontinentali e delle catene di montaggio la quintessenza dell’America per la vecchia Europa erano stati il grande Barnum e i suoi trucchi da circo.



Confidence man, lo hanno chiamato. “Uomo di fiducia” è il modo in cui l’espressione viene resa. Così il titolo in italiano dell’ultimo, il più complesso, più filosofico e più criptico romanzo di Herman Melville. Confidence man viene da con man, imbroglione. Titolo e personaggio potrebbero essergli stati ispirati da un famosissimo artista della truffa le cui imprese riempivano le pagine dei giornali di New York negli anni 40 dell’Ottocento. Si chiamava William Thompson. Con mille travestimenti, abbordava le sue vittime per strada, frastornandole con la sua forbita conversazione, riuscendo a convincerle a dargli l’orologio, o accordargli un prestito, per poi sparire nel nulla, come dal nulla era comparso. L’America dell’Ottocento era piena di figure del genere. Erano migliaia. Furono loro a rendere per primi grande l’America. La fiducia è il loro mestiere. Il venir meno della fiducia è la loro tragedia. Non c’è imbroglione senza disponibilità, predisposizione, voglia matta di essere imbrogliato da parte di qualcun altro.



L’imbonitore non è un volgare parassita, non ha solo l’obiettivo di spillare soldi. Presta anche un servizio. Non a caso il venditore che ha reso l’America grande è, sin dall’inizio, l’agente immobiliare. Si è immaginato spesso come il più grande di tutti i salesmen. E’ uno che “lavora sodo, deve agire rapidamente, pensare in fretta, e, soprattutto, essere giusto e utile ad entrambe le parti, al venditore come all’acquirente. […] Ha reso felice il cuore di milioni di spose e di madri convincendo i padri e i mariti a comprarsi un posto che possano chiamare casa, dove il loro lavoro domestico è più facile, e la loro vita più felice” (da un manuale ottocentesco per agenti del real estate). Le campagne del primo dopoguerra all’insegna di “Case migliori per l’America” e del “Siate proprietari della vostra casa”, resero quanto l’introduzione delle vendite a credito. Non importa che le tecniche siano aggressive, mendaci, magari truffaldine. Non importa che intaschino una lauta commissione. Una casa, un frigorifero, una lavatrice, un’auto per tutti è stato più convincente del socialismo come “elettrificazione di tutta la Russia” di Lenin. Le origini ritornano sempre. Forse non è un caso che l’attuale presidente degli Stati Uniti sia un immobiliarista. Come immobiliarista era Berlusconi prima di allargare il suo impero alle televisioni. Quando stanno per fallire da imprenditori, si buttano in politica. Casa e persuasione. La ricetta per rendere contenti è sempre quella. Il cliente ha sempre ragione. Bisogna saper indovinare quel che desidera, o indurlo a desiderare quel che gli vuoi vendere. Non ci sarebbe alcun bisogno di dazi per riequilibrare la bilancia commerciale Usa. Gli basterebbe scrollarsi l’addiction di comprare carabattole dalla Cina.



Vorrei sbarazzare il campo da un equivoco. Non ce l’ho con i commessi viaggiatori. Né con i commercianti. Mio zio faceva il commesso viaggiatore. Girava il mondo con valigie piene di campioni. Morì, stroncato da un infarto, appena sbarcato sulla pista dell’aeroporto di Tokyo, dove era andato a vendere sete italiane in Giappone. Mio padre aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita a cercare, nel minuscolo negozietto giusto alle spalle del Duomo di Milano, di convincere i clienti a comprare le sue camicie e cravatte. Ci provavo anch’io, ma con esito disastroso. E’ un’arte che ho mal appreso. Mi commuovo ogni volta che assisto a una rappresentazione di quel capolavoro assoluto, quell’epica formidabile delle speranze e delle illusioni americane che è Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. Il gran seduttore non gode di buona stampa. Per le grandi religioni monoteiste è una delle definizioni del diavolo. Ma il diavolo in veste di venditore, spacciatore, proponente di affari vantaggiosi, irresistibili, ha una sua nobiltà. Il Mefistofele del Faust di Goethe è assolutamente affascinante. Persino simpatico. E’ un burlone. E’ divertente. A tratti è più umano della sua vittima, assetata di sapienza, di amore, se non di ricchezza e di potere. La sua è una proposta onesta, equa, ineccepibile. Il lettore è quasi deluso che sia lui alla fine ad essere imbrogliato. Tutte le culture del mondo sono zeppe di mascalzoni simpatici, di trickster eroici nella loro malizia. Dal Loki della mitologia nordica al Coyote delle leggende degli indiani d’America, al Bertoldo dall’astuzia contadina che si beffa di ricchi, avidi, baciapile e potenti. Anche la Cina Ming aveva una sua raccolta cult di storie di truffatori. Chi non ha tifato per il protagonista de La stangata interpretato da Paul Newman?



Un truffatore fascinoso è Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Seduce e incanta tutti, lettori compresi. Finisce in rovina. Non perché venga smascherato (si capisce sin dal primo momento che la sua magnificenza deve avere origini torbide). Ma perché le sue imposture attecchiscono in un mondo malato e distorto di suo, di gente che se ne frega del prossimo. “Careless people”, gente disattenta, che non si cura degli altri. Qualche traduzione rende con “sbadati”. Francamente non mi convince, lo ritengo riduttivo. “Tutto era molto trascurato e confuso (very careless and confused). Era gente che non dava importanza a nulla (they were careless people). Tom e Daisy sfracellavano cose e persone, e poi si rifugiavano nei loro soldi, o nel loro menefreghismo (carelessness), o in quel che, qualunque cosa fosse, li teneva insieme, e lasciavano che fossero altri a rimediare ai casini che avevano combinato”. I truffatori confondono, scompaginano i benpensanti. Sono loro i veri ribelli, i veri rivoluzionari. Vengono dal nulla, incantano con la loro parlantina, non con la violenza e la prepotenza. La loro fortuna si fonda non tanto sull’ingenuità quanto sul menefreghismo egoista, non sulla cattiveria ma sull’indifferenza. “Odio gli indifferenti”, scriveva Gramsci. Odio i careless, chi non se ne cura, parafraserebbe Fitzgerald. I con men assumono le fattezze più impensate, sono capaci di mille travestimenti. Un imbroglione che si rispetti è innanzitutto un grande narratore. Nel Racconto d’inverno di Shakespeare, Autolico è un personaggio che si presenta come un venditore ambulante, ma è in realtà un ladro, un imbroglione. E’ un delinquente esperto nel coniare false storie, incantare la sua audience. Fa tutto sommato lo stesso mestiere dell’autore.



Nella Mosca di Stalin, Michail Bulgakov fa comparire dal nulla un misterioso seduttore dai poteri diabolici. Nell’America della vigilia della guerra civile, Hermann Melville fa comparire dal nulla un altrettanto misterioso personaggio che seduce con le sue chiacchiere e i suoi trucchi i passeggeri di diversa estrazione che viaggiano su un battello sul Mississippi. L’uno e l’altro sono diabolici nella loro capacità di persuasione, veri e propri giocolieri della parola, menzogneri per vocazione, dei trickster, imbroglioni di sovrumano talento teatrale, che con i loro trucchi ispirano fiducia, suscitano grandi aspettative, rispondono in forme diverse a quello che la gente, le loro vittime si aspettano da loro. Come tutti i trickster, non appaiono odiosi, sono semmai dei simpatici burloni. Sono profeti e messia. Sono, al tempo stesso, mistici e blasfemi. Sacrali e ridicoli. Promettono il Paradiso, o il Sole dell’avvenire, la felicità per tutti. L’uno incanta l’America avviata al grande decollo industriale. L’altro una Russia che è uscita dalla Guerra civile e si avvia a diventare potenza mondiale. In un romanzo e nell’altro, il tono è quello della commedia satirica. In un caso non finisce bene. La saga di Ostap Bender (“cittadino turco di Odessa”) e dei suoi compari immortalati da Ilf e Petrov ebbe nell’Urss degli anni Trenta più versioni e più successo delle saghe degli eroi bolscevichi. C’è un dotto saggio di Sheila Fitzpatrick, grande studiosa della Russia di Stalin, che ne individua gli antenati (a cominciare dal Cicikov di Gogol che trafficava in anime morte), e i discendenti (fino ai gangster e agli oligarchi dell’èra Eltsin e Putin). Quanto all’America di Trump, non ha neanche bisogno di un romanzo con protagonista l’eterno trickster. Il romanzo, la satira di sé stesso è lui. La fiction uscirebbe malconcia dal confronto con la realtà.



Melville fece una gran fatica a pubblicare il suo Confidence man. Sarà che “i manoscritti non bruciano”. Ma i libri scomodi non tirano. Sono imbarazzanti. Sono pericolosi, specie per l’autore. Bulgakov bruciò il primo manoscritto de Il maestro e Margherita. Per non finire al Gulag. Ad altri è andata peggio. Uno dei più grandi autori russi del Novecento, Sigizmund Krzhizhanovsky, scriveva negli anni 20, ma fu pubblicato, postumo, solo negli anni della perestrojka. E’ tuttora poco conosciuto anche in occidente. La sua ironia dell’assurdo l’avrebbe altrimenti perduto. Tra i suoi personaggi una spassosissima versione sovietica del Barone di Münchhausen, uno che una ne fa e mille ne inventa. I miti altisonanti hanno il difetto di fare a pugni con la realtà. E’ evidente che a Stalin la satira non sarebbe piaciuta affatto.


Il battello fluviale Le Fidèle del Confidence man di Melville, che percorre il Mississippi diretto a New Orleans, imbarcando e sbarcando ad ogni tappa la sua variegata umanità, è un microcosmo dell’America del suo tempo, così come la baleniera Pequod del Moby Dick è un microcosmo del mondo intero. Intere biblioteche sono state scritte su chi sarebbe chi tra i personaggi che si susseguono, si sovrappongono l’un l’altro. Cerco di abbindolare il prossimo, ergo sum. C’è lo storpio che non si capisce se finga o sia davvero da commiserare. C’è l’anima buona che si fa convincere a sostenere un fantomatico fondo a favore delle vedove degli orfani seminole. C’è il colonnello che “odia gli indiani”, gli dà la caccia e li ammazza ovunque li trovi. Ha le sue ragioni, una banda di rinnegati indiani gli ha massacrato moglie e figli. Ha la sete di vendetta dei coloni israeliani. Per il resto, è un uomo di buon cuore, timorato di Dio. C’è il ministro del culto dal cuore più duro e avaro di quello dei trafficanti e faccendieri. C’è il diffidente che non sgancia un cent, malgrado abbia il portafogli gonfio, e c’è quello che si fa sedurre dalla prospettiva di facile e sicuro guadagno sulle improbabili azioni che gli vengono sventolate sotto il naso. Ci sono il perfetto gentiluomo coi polsini d’oro e ci sono gli straccioni. Ci sono giudici severi, giudici corrotti e uomini d’affari. Ci sono il cosmopolita e i sovranisti arrabbiati. Ci sono i furbi e gli ingenui, gli ottimisti dell’“a me non mi fregano”, e quelli che vogliono convincere il prossimo a fidarsi o a diffidare, citando Tacito, Socrate o le Scritture. Tutti raccontano storie. A cui gli interlocutori rispondono con contro-narrazioni.



Che le storie siano vere o no, verosimili o meno, non ha alcuna importanza. “Strana davvero, ma è vera?”, chiede uno della storia che gli è stata appena raccontata. “Naturalmente no; è una storia che ho raccontato con il proposito di tutti i narratori – divertire”, la risposta. Il Fidèle è un immenso bar cosmico. Dialogano in gruppo, o due per due, mescolando sacro e profano, luoghi comuni o pensieri elevati. Non tutte le vittime designate del proteico con man sono mosse dal miraggio di un facile quanto disonesto guadagno. Ma tutti quanti perseguono un deal, un accordo economicamente o moralmente vantaggioso. E’ l’apoteosi della trattativa, del do ut des, del negoziato e del deal fini a se stessi, dell’interminabile e ingegnosa discussione sul prezzo del tappeto. Che si arrivi al dunque, che si concluda o no l’affare è secondario, l’importante è negoziare. Il trickster è anche filosofo, ideologo, teologo. Come lo sono le vittime che prende di mira. Il catalogo dei con men che si susseguono nel romanzo di Melville è sterminato. Ci si perde. Persino i commentatori più agguerriti sono confusi, talvolta sbagliano a quale degli interlocutori vada attribuita questa o quella battuta. Una delle lettrici più attente del Confidence man, Helen Pinkerton Trimpi (non Trumpi), ha pubblicato un saggio, ormai classico, sulle corrispondenze tra il romanzo e la realtà politica dei tempi di Melville (Melville’s Confidence Men and American Politics in the 1850’s). Ma anche un altro saggio, altrettanto dotto, quasi altrettanto corposo, sull’interpretazione del romanzo come “arlecchinata”, pantomima, commedia dell’arte.



Tutti si appigliano alla carità. Il romanzo inizia, sul pontile dell’imbarcadero per il Fidèle, con una specie di duello di cartelli. “La carità non pensa mai al male”, “La carità è credere tutto”, “La carità non sbaglia mai”. A cui fa da contrappunto un cartello nella vetrina del barbiere di bordo: “No trust”, niente credito, niente fiducia. “Dove si dimostra che molti uomini hanno molte opinioni”, il titolo del secondo capitolo. La carità è invero uno dei punti alti della vicenda umana. Ma può essere pelosa. Bill Gates ha messo in piedi la più gigantesca impresa di beneficenza della storia. Accusa il collega miliardario Musk di voler far morire di fame milioni di bambini togliendogli il pane dell’assistenza di bocca. Ma nello stesso tempo, ora che Trump minaccia di non detassare più la beneficenza, annuncia lo smantellamento della sua Fondazione benefica da 200 miliardi di dollari. Dai grandi filantropi mi guardi Iddio, che dai semplici truffatori mi guardo io.

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