Nel vuoto degli anni 80, Severini ha scritto della provincia languida con nobiltà

“A cosa servono gli amori infelici” ritorna in libreria. Lo sguardo di un orfano della guerra, a cui la vita quotidiana “silenziosa”, senza allarmi, sembra l’unico rifugio familiare adatto a osservare i fenomeni perturbanti senza esserne inghiottiti

Gilberto Severini è uno dei maggiori narratori italiani, e purtroppo anche uno dei più sottovalutati. Ha esordito già quarantenne nell’Ancona degli anni 80, città di notevole fermento editoriale; ma è sempre rimasto lontano dalle stilizzazioni generazionali e goliardiche di quel milieu. Nelle sue pagine non si sente mai lo sforzo d’impostare la voce, che in lui è naturale come capita ormai solo a certi saggisti con vocazione autobiografica. I suoi riferimenti al costume di fine ’900 (tv, canzoni, giornali) non appaiono mai né banali né pretenziosi. A Severini si addice una parola più volte evocata dai suoi alter ego narrativi: “nobiltà”, nel senso di spontanea rinuncia a fuggire da sé. Nobile è il suo bell’italiano trasparente; e nobile il suo modo di rappresentare una languida provincia ex pontificia senza farne la caricatura. E’ lo stesso ambiente su cui lavora invece, appunto per deformazione pittoresca, l’arte di tipo felliniano.

Mentre in questa provincia le esistenze si consumano di solito nell’attesa o nel ricordo di rari eventi memorabili, il narratore severiniano ama la vita “dimenticabile” di tutti i giorni. Non insegue le avventure: le aspetta fermo nelle piazze, nei cinema domenicali, nelle botteghe, nelle brevi gite o convalescenze – insomma nei luoghi e nei momenti di placida sosta, in cui il tempo si accumula per lievi variazioni su un fondo monotono. Queste avventure comiche, impudiche o crepuscolari, vengono poi accolte in uno sguardo di rara giustizia contemplativa, che non deride e non sublima. E’ lo sguardo di un orfano della guerra, a cui la vita quotidiana “silenziosa”, senza allarmi, sembra l’unico rifugio familiare adatto a osservare i fenomeni perturbanti senza esserne inghiottiti.

L’editore Playground ha da poco ripubblicato uno dei libri più rappresentativi di Severini, il romanzo-zibaldone “A cosa servono gli amori infelici”. Un uomo quasi vecchio aspetta il giorno dell’operazione in una corsia d’ospedale da cui salgono le voci impastate, cerimoniose o ilari di infermieri, visitatori, pazienti. Come altri personaggi severiniani, è “un generico della vita”: per decenni il suo mestiere è consistito nel comporre i discorsi dei presidenti di una fondazione. Un lavoro vicario, in ogni senso. Del resto questo protagonista si è mimetizzato fin da giovane nella folla degli impiegati: si veda la pagina in cui ricorda una trasferta nella Roma del ’68, dove i poliziotti, benché sia appena più anziano degli studenti in manifestazione, lo identificano subito come un uomo d’ordine, mentre lui, anziché da entusiasmi rivoluzionari, è preso a tradimento da un’esigenza fisiologica impellente. Dunque, il nostro paziente per passare il tempo si mette a scrivere. Finalmente per sé, su un quadernetto; e scrive lettere. La prima al dotto Fabrizi, un collega fin troppo cattolicamente premuroso. La seconda a don Gabriele, un prete della sua adolescenza. La terza, riassuntiva, a un ente non burocratico né ecclesiale ma metafisico.

Il capolavoro è la parte sul prete, che durante una villeggiatura tentò di convincere il narratore adolescente a lasciarsi accarezzare, e lo fece con una serie di sillogismi capziosi sull’amicizia: cioè con la violenza oratoria, vellutata, di chi forza la naturalezza perché si sa già sconfitto. Perfetta la descrizione del double bind: da un lato l’“amato infelice” prova rancore, dall’altro si vergogna e si sente in colpa. Segue una poetica educazione sentimentale in cui Severini riflette su ciò che va perso – per entrambi – quando tra due individui uno non corrisponde alla passione dell’altro. Anche qui, il mondo dei travet e delle parrocchie fa emergere il tipico ritratto severiniano dell’artista come ragazzo invecchiato, ombroso, con un orecchio sommo per le voci, costantemente preferite a quel “visibile” che nella sua provincia scarseggia. In appendice, intervistando l’autore, Massimo Raffaeli nota che nella sua opera s’intrecciano romanzo di formazione e romanzo epistolare, e risuona sempre un’aria da congedo. Verissimo: la voce di Severini, come quella dei più seri narratori italiani che hanno esordito nel vuoto e nell’anonimia degli anni 80, è la musica dell’uomo solo.

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