Da tragica necessità, la guerra di Bibi rischia di diventare scelta. E per di più con l’apparenza di essere ora strategicamente cieca
Israele è in una stretta drammatica. Si è dovuta difendere con una lunga guerra estenuante e tragica, imponendo a un potente esercito terrorista, fiancheggiato da milizie e apparati militari su molti altri fronti, da una minaccia esistenziale e da un trauma potente e crudele, dal pogrom del 7 ottobre alla condizione di decine e decine di ostaggi imprigionati nei tunnel di Hamas o disseminati nelle abitazioni civili della Striscia, un trauma che ne ha chiamati altri, di segno opposto, sui suoi nemici decimati dalle bombe piovute su due milioni di palestinesi intrappolati a Gaza, con effetti devastanti di morte e distruzione. Tra i diversi fronti (Iran, Libano, houthi) è cresciuto per le conseguenze devastanti dell’offensiva il fronte umanitario, che ha prodotto un accerchiamento di israeliani ed ebrei, nella regione e nel mondo, nelle relazioni diplomatiche e nell’ordine giudiziario internazionale, nella ripresa dell’antisemitismo e nel tentativo di invertire i ruoli di vittima e carnefice a partire dal tentativo di cancellare il solco stabilito dalla Shoah.
Ora chi ha guidato il paese, Netanyahu con la sua alleanza alla Knesset, è di fronte a scelte anch’esse di peso esistenziale. La guerra ha quasi eliminato Hamas, ma non fino allo sradicamento totale e definitivo che ne era l’esplicito obiettivo; gli ostaggi sono stati in parte riscattati dalla pressione militare e da accordi parziali, ma alcune decine sono ancora in cattività; l’espansione di Hamas in Cisgiordania è stata contenuta con la forza, ma in un contesto ambiguo quanto alla prospettiva, perché il disconoscimento della facile e illusoria prospettiva dei due stati si intreccia con la reazione colonizzatrice pura e semplice, che a tutt’oggi è una pulsione ma non una politica; le pretese dell’Iran, dopo la sconfitta di Hezbollah nel fronte del sud del Libano e il crollo del regime filtro di Assad, sono ridimensionate. Ma le scelte diplomatiche istintuali e affaristiche di Trump, e l’evidente divaricazione di interessi e prospettive che ne derivano, offuscano tutto il quadro entro cui il governo israeliano agisce.
La sola riproposizione della guerra a Gaza fino alla completa eliminazione del nemico, senza la ricerca di uno sbocco politico, è divenuta un problema, appunto la stretta in cui il paese si trova, perché determina un assedio di Israele e un suo isolamento ancora più profondo di quello che ha e abbiamo combattuto nell’ultimo anno e mezzo, un tendenziale isolamento perfino dall’Amministrazione americana che sostiene il paese lungo le linee di una storica alleanza non rinnegata da Trump, che l’ha anzi da sempre enfatizzata, ma persegue una risistemazione di tutti gli equilibri del medio oriente fondato sulla normalizzazione statuale dei rapporti tra Israele e i grandi stati sunniti, alleati politici e di business della Casa Bianca. Il paradosso di Netanyahu è questo: ha predicato di voler cambiare la mappa politica della regione e dei suoi poteri con una guerra difensiva e dissuasiva che ha ottenuto risultati enormi, ha pensato di poter superare lo schema dei due stati, nel tempo divenuto una trappola propagandistica, con gli accordi detti di Abramo, ma ora che l’obiettivo si avvicina, anche con il negoziato a sorpresa sul nucleare iraniano e con il viaggio opulento e bombastico di Trump nel Golfo, iniziative che gli sono passate sopra la testa, non riesce a riproporre altro che la continuazione della guerra a tempo indeterminato. Ciò che era una tragica necessità quando in tutto il mondo i soloni della geopolitica consigliavano a Israele di astenersi dal combattere per la propria difesa, dopo il 7 ottobre, ora rischia di diventare una scelta, e per di più con l’apparenza, fino a prova contraria, di una scelta strategicamente cieca.