La necessaria ribellione degli Appennini al Giro d’Italia

Per fare grandi distacchi ci vogliono salite lunghe e una dietro all’altra. Questo è il ragionamento che si fa. Ed è un ragionamento che risponde il più delle volte al vero. Eppure ci sarebbe modo per farlo anche tra gli Appennini, un po’ troppo sacrificati nella corsa rosa

Le Alpi sono ingorde. Si sono prese tutto. Chi va in montagna è un alpinista. Chi accompagna la gente in montagna e insegna loro le tecniche relative a tutte le attività che si possono praticare lassù è una guida alpina. I sentieri sono tracciati e curati dal Cai, il Club alpino italiano. E questo ovunque.

Pure sugli Appennini.

Gli Appennini si dovrebbero ribellare a questa invasione totalitaria delle Alpi. Dovrebbero dichiarare indipendenza linguista da questo abuso omologante.

E dovrebbero iniziare dal ciclismo. Perché almeno nel ciclismo le salite sono semplicemente salite e gli scalatori lottano per essere il miglior scalatore di un grande giro senza nessuna invasione di aggettivi di una particolare catena montuosa.

Ci mancherebbe solo questo. Perché è da anni che gli Appennini se la passano male al Giro d’Italia.

Le Alpi si sono preso tutto pure nel ciclismo. Affollano l’ultima settimana di corsa, affollano le grandi tappe di montagna del Giro, riempiono, e qui in fondo a ragione, i pensieri e le fantasie dei corridori e dei cicloamatori. Perché le salite alpine sono lunghe e dure, raggiungono e superano i duemila metri, altezze che quelle appenniniche quasi sempre nemmeno sfiorano. E l’altezza, almeno nel ciclismo, è ben più di mezza bellezza, è terreno di esplorazione per grandi imprese a pedali.

Eppure l’epopea italiana del ciclismo è stata, almeno inizialmente soprattutto appenninica. Sugli Appennini si decidevano le sorti dei Giri d’Italia ben prima che le Dolomiti facessero l’ingresso nella geografia ciclistica. Accadde nel 1937 e il primo a involarsi tra i passi dolomitici fu Gino Bartali il 26 maggio del 1937, nel corso della 16esima tappa, la Vittorio Veneto-Merano, 227 chilometri.

Il Passo Rolle diede il via all’abbuffata alpina, sebbene già il 23 maggio del 1911 il Sestriere vide transitare i corridori. Le altre grandi cime alpine arrivarono solo dopo. Il Passo Pordoi nel 1940, il Colle del Gran San Bernardo nel 1952, il Passo dello Stelvio nel 1953, il Bernina nel 1954, il Gavia nel 1960, il Mortirolo nel 1990.

Il loro ingresso nella geografia del Giro cambiò tutto. Gli Appennini vennero pian piano messi da parte e ora a loro è concesso poco più di un cameo all’interno delle tre settimane di corsa.

Per fare grandi distacchi ci vogliono salite lunghe e una dietro all’altra. Questo è il ragionamento che si fa. Ed è un ragionamento che risponde il più delle volte al vero. Eppure ci sarebbe modo per farlo anche tra gli Appennini. Servirebbero amministrazioni volenterose di investire in una grande tappa. Sarebbe un ottimo modo per levare di dosso a queste grandi montagne antiche quello strato di polvere ciclistico depositatosi sopra in decenni di alpicentrismo e di snobismo alpino. Sarebbe bello vedere l’effetto che fa un Giro d’Italia capace di riscoprire certe strade appenniniche, dare loro un nuovo lustro, una nuova occasione per ritornare al centro della scena.

Il Giro d’Italia quest’anno ha dato agli Appennini un po’ più del solito spazio: due tappe e mezza. Però tutte e tre un po’ pigre per disegno. A Tagliacozzo si è visto come andata; sabato toccherà al Valico di Santa Maria Maddalena e al preappennino marchigiano; mercoledì prossimo al gran ritorno dell’Alpe di San Pellegrino.

Alpe pure quella. Si sono proprio prese tutto le Alpi, pure le vette appenniniche.

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