Che cosa si sono detti ucraini e russi in due ore scarse a Istanbul

C’è l’accordo su un grande scambio di prigionieri, ma per Mosca non se ne parla di cessare il fuoco. L’interprete dall’ucraino

Vladimir Medinsky, il capo della delegazione russa arrivata a Istanbul, a conclusione dell’incontro con gli ucraini ha detto di essere soddisfatto. Si è presentato davanti alla stampa con degli appunti in mano, sui quali aveva annotato cosa riferire, in modo sintetico. “Abbiamo stabilito di continuare i contatti”, ha detto. “Abbiamo raggiunto un accordo” su un grande scambio di prigionieri che prevede il ritorno di mille russi e mille ucraini. Poi Medinsky ha detto che la delegazione ha preso atto della richiesta ucraina di negoziati diretti fra i leader e infine, ultima nota tra gli appunti: Russia e Ucraina si impegnano a presentare nel dettaglio la loro visione per un futuro cessate il fuoco. Lo scambio dei prigionieri di guerra è l’ultimo ambito in cui Kyiv e Mosca hanno mantenuto canali aperti dal 2022.

A volte attraverso l’aiuto di parti terze, spesso però lavorando in autonomia, l’esercito e i servizi dei due paesi sono riusciti ad accordarsi: l’ultimo scambio c’è stato la scorsa settimana, sono stati liberati 62 prigionieri da tutte e due le parti. “Conosciamo già la data” dello scambio, ha detto il ministro della Difesa ucraino Rustem Umarov, capo della delegazione di Kyiv, “ma non può ancora essere rivelata”. Umarov, contrariamente a Medinsky, non ha detto di essere soddisfatto, ma ha confermato di aver lavorato su tre temi: scambio dei prigionieri, incontro fra i capi di stato dei due paesi e il più importante, quello per cui gli ucraini avevano accettato di andare a Istanbul, il cessate il fuoco di trenta giorni.

Questa è la cornice che Russia e Ucraina hanno messo intorno all’incontro durato due ore, un tempo davvero breve per dei negoziati, che di solito possono andare avanti per notti insonni, scanditi da molte pause. Le delegazioni dei due paesi non si incontravano da tre anni, quando si sono disposte attorno ai lunghi tavoli, sotto agli occhi dei mediatori americani e turchi, con nessuna foto di rito, se non qualche scatto soltanto per mostrare che fosse tutto realtà, giornalisti e analisti si erano disposti in attesa, nella consapevolezza che l’incontro sarebbe potuto essere molto lungo. I colloqui invece sono stati quasi telegrafici, dopotutto nessuno era entrato in quella stanza del palazzo Dolmabahce di Istanbul pensando che l’incontro potesse portare a un risultato di svolta come il cessate il fuoco. Il segretario di stato americano, Marco Rubio, aveva detto che non sarebbe stata quella la sede per far accadere qualcosa e si era accodato all’idea del capo della Casa Bianca, Donald Trump, per il quale solo un suo incontro con Vladimir Putin può sistemare le cose. Gli ucraini erano andati a Istanbul più per far vedere agli americani di essere pronti a negoziare sempre e comunque, anche con una delegazione composta in modo tale da non poter prendere decisioni di rilievo. I russi erano arrivati in Turchia per costruire l’illusione negoziale di cui Putin ha bisogno per portare avanti la guerra senza subire troppa pressione. Durante le due giornate a Istanbul, Medinsky ha ripetuto più volte che l’incontro si era tenuto “su iniziativa del presidente della Federazione russa, Vladimir Vladimirovich Putin”, ed è stato davvero il capo del Cremlino a indire, in una conferenza stampa in ore per lui inconsuete, un incontro in Turchia fra le delegazioni. Anche questa dichiarazione era più forma che sostanza, nei giorni che hanno preceduto l’annuncio, gli americani, gli ucraini e gli europei si erano tutti pronunciati a favore di un cessate il fuoco di trenta giorni, a Putin serviva un espediente per uscire dall’angolo e così ha mandato a Istanbul la stessa squadra che aveva mandato esattamente tre anni fa, con le stesse identiche richieste, come se il tempo si fosse fermato. La stampa ucraina ha raccontato che durante l’incontro i russi hanno preteso, come precondizione a un cessate il fuoco, il ritiro dei soldati ucraini dalle quattro regioni in cui Mosca occupa parte del territorio. Al rifiuto ucraino, un funzionario russo ha risposto che se Kyiv non accetta la prossima volta le regioni saranno cinque. Esiste anche una versione russa di questo scambio e l’ha riferita la capa di Rt, Margarita Simonyan: i russi avrebbero intimato agli ucraini di ritirare le truppe da tutta l’area compresa nella “Costituzione di Mosca”. Il Cremlino considera suoi non soltanto i territori che occupa militarmente ma anche le intere regioni di cui questi territori fanno parte. Al rifiuto ucraino, secondo Simonyan, i russi avrebbero risposto: se non accettate, la prossima volta le regioni saranno otto.

La verità, se si guarda l’avanzamento russo da un vertice di Istanbul all’altro, è che il territorio controllato da Mosca in tre anni si è ridotto. Da un vertice di Istanbul all’altro è cambiata anche un’altra cosa, fra le tante: gli ucraini hanno preteso la presenza di un interprete dall’ucraino per comunicare con la delegazione di Mosca. Anche i confini linguistici sono cambiati.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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