Sull’arte del “lasciar andare”

Andrée Ruth Shammah parlava di Israele e Palestina e ha concluso augurandosi che qualcuno imparasse a “lasciar andare le cose”. Dalla morte, all’amore, ai ricordi, è un atto che può salvare il mondo

Introducendo, anni fa, uno dei suoi memorabili dialoghi con le persone illustri, Antonio Gnoli diceva di volerne fare una Lettera a Milena – a Milena Vukotic. Cui oggi, senza echi kafkiani, vorrei spedire almeno una cartolina, dopo averla ammirata sul palcoscenico milanese del teatro Parenti. E’ andata così: Andrée Ruth Shammah, che del Parenti è donna (“dalla fondazione, nel 1972, altri teatri vantano ) parlava con me, piuttosto angosciosamente, di Israele e Palestina e del resto del mondo, e a un certo punto ha concluso augurandosi che qualcuno imparasse a “lasciar andare le cose”. Non mi è stato subito chiaro che cosa intendesse. Avevo piuttosto in mente l’espressione “lasciarsi andare”, che, almeno in tempi pre orientali, suonava male. Nel 1960 Charles Aznavour tirò fuori una canzone che guadagnò subito il primo posto in Francia e piazzamenti spettacolosi nel resto. S’intitolava “Tu t’laisse aller”, tu ti lasci andare, e a rileggerne il testo fa raccapricciare. Lui ha bevuto abbastanza da trovare il coraggio di dire a lei come, in appena cinque anni, si sia lasciata andare – trasandata, ingrassata, i bigodini – così che “parfois je voudrais t’étrangler”, vorrei strangolarti, a volte, e su questo tono per molti versi, “sei un bruto e un tiranno, senza cuore né anima”, finché “tuttavia”, lui spesso pensa che “malgrado tutto”, “sei la mia donna”, dunque: “Lasciati andare”. Così, Dio ci perdoni.

“Lasciar andare”, dice ora Shammah, per salvare il mondo, e si fa l’ora del suo spettacolo, “Lezione d’amore. Sinfonia di un incontro”, l’ha scritto con Federica Di Rosa. C’è una stanza parigina, una scala a chiocciola e un ballatoio con la libreria, un pianoforte a coda, un narratore, una gatta, e i due della lezione e dell’incontro, Madame A. e il Giovane Svogliato, uno che fa spesso brutte figure, annovera già 42 fallimenti (“neanche tanti”). Madame A. è Vukotic, che è in teatro pianista e ballerina, e fuori anche figlia di una pianista, Marta Nervi, e nipote di una celebre pianista, Gemma Luziani, morta a 24 anni a Rio de Janeiro e nata alle Piagge, a Pisa, che le ha intitolato una piazza. Madame A. gli insegna l’essenziale, ascoltare col corpo, provare il piacere di obbedire, badare al silenzio fra una nota e l’altra, insegnare alle dita a sfiorare, avere nostalgia – alla sua età di ragazzo si può – e diffidare di chi crede che si possano cambiare le persone. E che la vita si impara andando ai funerali, soprattutto quelli della gente che non conosci: è come essere a teatro. Per allora, lei cerca un accompagnatore. Lei, “prima”, è nata nel campo, in un altro “prima”, a quarant’anni, ha fatto delle fotografie nuda, forse per riprendersi il proprio corpo, era un’altra. Bene, non continuerò, le cose scritte tradiscono quelle dette e i corpi che le dicono e le ballano e le ironizzano – Madame A. è leggera e danza e gorgheggia da Regina della notte – e insomma andate a vedere e sentire, è in scena fino al 18. In verità è una regina del teatro. Neanche un mese fa il David alla carriera e il compleanno rotondo l’hanno festeggiata come merita, o quasi. Come meriterebbe anche se avesse vent’anni di meno, o di più.

Torno al lasciar andare. Dice Madame A.: “Finché arriva il momento di lasciarla andare, la mano. Semplicemente lo senti. I brutti pensieri lasciali andare… Gli errori si fanno e poi si dimenticano. Lasciar andare…”. E il narratore: “Non è facile lasciare andare qualcuno, anche quando ti accorgi che è arrivato il momento”. Lei, al ragazzo: “Lasciar andare vuol dire nascere a una nuova vita”. Lui: “Ma come si fa?”. Lei: “Non ostinarti a trattenere, come se quello che hai dentro ti definisse meglio. Lasciare andare è un regalo che puoi fare a te stesso. Pensa a una donna che sta per partorire. Per far nascere suo figlio deve guidarlo fuori da sé, e darlo al mondo. Anche io e te prima o poi dovremo lasciarci per sempre… Dove voglio andare davvero tu non puoi venire con me. Però puoi fare una cosa molto importante: aiutarmi ad arrivare alla fine. Mi terrai la mano e poi staccherai piano piano le dita una dopo l’altra – mi lascerai andare”.

Il giorno dopo ci stavo ripensando e, come succede, mi è sembrato che in giro non si parlasse d’altro che del lasciar andare. Sul Domani quotidiano c’era un’intervista di Mattia Insolia a Michele Ruol, autore di un “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia”, ed. TerraRossa, che è nella dozzina dello Strega. Insolia lo interpella sul “lasciar andare ciò che ci ha fatto soffrire”. Ruol: “Va definito anzitutto cosa si intenda per lasciar andare. Nel romanzo la madre non vuole lasciar andare… Finché a un certo punto qualcosa cambia, e ricomincia a progettare e fare delle cose per sé. Cosa vuol dire questo, che ha dimenticato i figli? No, naturalmente. La tragedia che l’ha investita, io credo non possa essere eliminata dalla memoria di nessuno. Piuttosto è come se quel dolore, quel pezzo di vita, venisse inglobato nella sua esistenza da lì in avanti. Come quegli alberi che crescendo inglobano un vecchio cancello, una vecchia recinzione che avrebbe dovuto contenerli. Ecco, è qualcosa di simile”. Ecco, siccome autrici e autori non si copiano, non qui almeno, Madame A., nella nostra “Lezione”, quando ancora si davano del lei, aveva detto al Giovane poi invogliato: “Non c’è niente di più orrido del proprio passato che resta lì, appeso nell’armadio, come un vecchio vestito. A noi i ricordi piace dimenticarli. Lei ci starebbe in una gabbia di cemento come quell’albero la fuori? Bisogna toglierlo da lì quell’albero! Si vede benissimo che vuole essere liberato: le radici hanno spaccato il cemento. Appena lei uscirà da qui andrà a liberarlo e lo porterà in un bosco. Anche lui vuole essere salvato. Come tutti”.

(Il giorno dopo, sul Corriere trovo il pezzo di Daniel Lumera (Giovanni Andrea Pinna): “Shikata ga nai: l’arte giapponese del lasciar andare”. Il sommario recita, appunto: “Se ci ostiniamo a trattenere qualcosa che deve andare via, soffriremo di più. Ma se impariamo a lasciare andare, proprio come gli alberi accettano la caduta dei fiori, troveremo pace. Lasciare andare non vuol dire arrendersi o perdere qualcosa, ma permettere alla vita di continuare il suo corso”. Vedo che il tema ha una lunga storia. Forse ho capito che cosa Shammah ha voluto dirmi, sullo stato del mondo. Difficile da adattare a Vladimir Putin, a Benjamin Netanyahu, a Donald Trump e, temo, anche a me. Io me la sono legata al dito, sia pure con qualche rigorosa eccezione, per gli alberi, le gatte, e le signore).

Il giovane svogliato è il sedicenne Federico Di Giacomo. Il narratore Andrea Soffiantini. Le autrici avvertono di aver pensato a Harold e Maude e a “Madame Pylinska e il segreto di Chopin”, di Éric-Emmanuel Schmitt.

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